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Watchmen

Chi controlla i controllori?
Solo lui: l'autore

analisi di Filippo "Jedifil" Rossi, scritta nell'aprile 2018

Disegno di Filippo Rossi Jedifil: Watchmen di Zack Snyder fantascienza Dottor Manhattan

Settembre 1986/ottobre 1987: la DC Comics regala al pubblico mondiale la miniserie limitata e autonoma “Watchmen”, di Alan Moore (scrittore) & Dave Gibbons (disegnatore). Dodici numeri che diventano all’istante il modello per una nuova era del fumetto. Tanto per andarci piano e tranquilli, è di pochissimo successiva ai quattro numeri di “The Dark Knight Returns” (“Il ritorno del Cavaliere Oscuro”) di Frank Miller, febbraio/giugno ’86. Un altro capolavoro a fumetti, oltre il genere e il medium. In pochi mesi, con Rorschach nel primo caso e con Batman nel secondo, il genere supereroico e la forma d’arte dei comic book vengono ridefiniti per sempre.

“Watchmen” è la seconda pietra miliare, forse e addirittura superiore all’opera di Miller. Pubblicata, dopo un’estate di pausa allucinata dal termine dell’odissea distopica del vecchio Bruce Wayne, tra gli autunni ’86 e ’87. Alan Moore vi arriva dopo la sua ultima opera supermaniana, “Che cosa è successo all’Uomo del Domani?”, indicativa di come ogni generazione di autori si sia ribellata alla precedente. La sua storia one-shot di Superman è un ritorno cosciente e sofisticato alla rimpianta Età dell’Argento di vent’anni prima, più nelle corde dell’autore inglese. Si tratta quindi un’abiura dell’Età del Bronzo, ormai al suo crepuscolo; e un attacco di Moore alla stessa “Crisi sulle Terre infinite” della DC che, prima di avviare inconsapevolmente la nuova Età Moderna, intende distruggere i costrutti immaginari della Silver Age.

“Watchmen” è sotto etichetta DC Comics ma si tratta di un lavoro esterno al canone e alla continuità dei supereroi più antichi e famosi del mondo, Superman/Batman/Wonder Woman ecc. Eppure, presenta l'interpretazione post-moderna dei personaggi e delle vicende tipici della Silver Age supereroica. È una vera e propria opera d’arte consapevole, ambiziosa e autoriale. Alan Moore, del resto, è la figura al centro degli ultimi quattro decenni di comic book. In “Watchmen” i suoi testi, fusi alle matite di Dave Gibbons e da queste risaltati, portano il fumetto nell’età adulta, definiscono le potenzialità e l’unicità del medium e segnano per sempre la letteratura mainstream anglosassone del XX secolo.

Parliamo di una storia a fumetti enorme. Riflessione sulle ansie contemporanee e, allo stesso tempo, decostruzione e parodia del concetto di supereroe americano. L’opera dipinge un presente alternativo nel quale i supereroi esistono per davvero. Appaiono negli anni ’40 e ’60 negli Stati Uniti (come nella realtà editoriale) e cambiano la storia umana. Grazie ai suoi vigilanti mascherati e all’unico essere dotato di superpoteri, l’onnipotente Dottor Manhattan, gli States vincono la guerra del Vietnam e il caso Watergate viene occultato; i due esemplari eventi storici che feriscono la sofferta storia americana sono così ribaltati e il vittorioso presidente reazionario Richard Nixon può instaurare una pseudo-dittatura. I supereroi rendono quindi il loro paese super-arrogante e troppo potente. Il risultante 1985 vede l’umanità sull’orlo dell’inevitabile Terza guerra mondiale, ovviamente nucleare, tra gli imperanti USA e un’URSS paranoica e umiliata. I giustizieri in costume sono stati resi illegali; la maggior parte è in pensione o lavora segretamente per la Casa Bianca nixoniana. Alcuni di loro, coinvolti nell’indagine sull’assassinio di un supereroe governativo, lo spietato e sarcastico Comico, sono costretti a uscire dall’ombra, crescere come persone e combattere strenue battaglie morali per impedire l’olocausto finale.

In “Watchmen” la storia è l’immagine ed è il contrario, la scrittura è il disegno ed è il contrario. Le tematiche di Moore sono radicali e simboliche; la narrazione non è lineare ma stratificata su più livelli; l’esecuzione di Gibbons è puro design ritmico. Le citazioni, dalla colta letteratura anglosassone e dalla musica rock e folk più raffinata, fanno contemporaneamente da contrappunto, cagione e chiosa delle vicende inventate. Lo studio sul tempo e sul modo del racconto è lucidissimo. Il valore assoluto dell’opera è nel perfetto rapporto continuo, fluido ed equilibrato di infiniti dettagli letterari e grafici; un obiettivo raggiungibile solo dal medium fumetto. Il risultato è il trionfo commerciale e critico.

Posseggo cinque edizioni di “Watchmen”, ossia della storia pluridecennale alternativa dei Minutemen: i primi supereroi mascherati del 1940 (la data è sul calendario durante la riunione della foto); e dei Crimebusters: gli eredi mascherati del 1966 (la data è sul giornale che legge il Comico alla prima riunione). Anche se mancano dodici minuti al Doomsday Clock, affermo che si tratta del fumetto più importante e bello che io abbia mai letto. Opera narrativa tra le decisive del ’900 americano. Quale dei dodici minuti prima della mezzanotte - ehm, dei dodici capitoli, è il più bello? Impossibile dirlo. Personalmente sono crepato su Marte. Ma le rivelazioni finali a Karnak sono state ipnotiche. E la divagazione in mare? E la dannazione dello psichiatra nero? E la simmetria terribile della Faccia? E... “Non sono io rinchiuso con voi. Siete voi rinchiusi con... me.”

Preso anche “Watching the Watchmen”, il librone del matitista Gibbons sulla genesi grafica del capolavoro. Magnifici disegni e stupende bozze che fanno intuire la complessità del disegno e dell’impaginazione. Le tavole sono state gestite con una logica cinematografica, tipo storyboard, e con un’impostazione tridimensionale degli ambienti. Da perderci la testa.

Presa anche la versione estesa del filmone magnifico di Zack Snyder. Preso anche… e anche…

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