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Dune, la saga

Disegno di Filippo Rossi Jedifil: Dune di Frank Herbert, Chani fantascienza

Nella desertificazione tecnologica, la sabbia umana

analisi di Filippo "Jedifil" Rossi, scritta il 17 marzo 2018

I Dune di Herbert, Jodorowsky, Lynch, Harrison, Villeneuve.

In sintesi: il primo libro 1965 di Frank Herbert è "dio". I cinque seguiti letterari dell’originale, a firma Herbert, sono sempre più validi ma difficili. Alejandro Jodorowsky a metà anni ’70 ne avrebbe fatto un film tra il folle fallimento egomaniaco e il trionfo kolossal in anticipo sui tempi. David Lynch, nel film cult del 1984, azzecca diverse cose importanti e ne sbaglia molte fondamentali, essendo un genio che non ha capito un accidente del libro. La prima Miniserie televisiva 2000 di John Harrison è bruttina ma a tratti interessante; la seconda 2003 di Harrison e Greg Yaitanes è bellina ma deludente. Le decine di libri sequel, prequel, interquel del figlio Brian Herbert con Kevin J. Anderson sono smisurati e mediocri. Oggi, il primo libro è e rimane "dio": il regista Denis Villeneuve dovrà farne un capolavoro cinematografico! Se Villeneuve farà l’obbligatorio filmone, per il resto di questa sua nuova saga avrà poi eccezionale materiale letterario grezzo, che potrà facilmente migliorare.

 

Herbert, 1965

 

Franklin Patrick Herbert Junior (Bilancia nata l’8 ottobre 1920 e morta l’11 febbraio 1986) pubblica “Dune” nella metà di tutto: a 45 anni nel 1965. Un’epoca spartiacque.

Il Romanzo, con la R maiuscola, di Fantascienza è subito un successo clamoroso: vince nello stesso anno il primo premio Nebula della storia e l’anno successivo il classico premio Hugo, i massimi riconoscimenti della narrativa Science fiction. È il primo dei sei romanzi che, scritti per vent’anni fino al 1985, formano la parte centrale e originaria del ciclo di Dune. A questa si sono aggiunte, dopo la scomparsa dell’autore, altre serie ambientate nell’Universo di Dune, in avanti e all’indietro, scritte dal figlio Brian Herbert su appunti e schemi del padre.

“Dune” libro 1 è stato originariamente pubblicato in due puntate sulla rivista Analog Science Fiction and Fact (ex Astounding Magazine) con i titoli di “Dune World” e “The Prophet of Dune”, tra il 1963 e il 1965. Quindi, è stato riunito in un unico volume diviso al suo interno in tre parti - parte 1: “Il Pianeta delle Dune”, parte 2: “Muad’Dib”, parte 3: “Il Profeta”. È il libro di Fantascienza che ha venduto di più in assoluto: fino al 2000, oltre dodici milioni di copie.

Una trama lineare condotta da molti personaggi e suddivisa nei relativi fili esistenziali, tutti gestiti con grande padronanza: ogni figura umana compie un percorso di cambiamento, che può portare alla caduta o alla crescita, alla morte o alla gloria.

Molti cineasti, romanzieri e artisti ne sono stati folgorati. Ad esempio, George Lucas nel 1977 ci lavora visivamente per impostare il suo Star Wars, prendendone di peso l’ambientazione desertica di Tatooine. Mentre George R.R. Martin, dall’ideazione del 1991 alla pubblicazione del 1996 e oltre, ne attinge a livello concettuale per le sue importanti e popolarissime Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. Il Duca Leto Atreides ispira lo stesso dramma nell’Eddard Stark de “Il Trono di Spade”: lord maturi e integerrimi adatti a civiltà luminose ma fuori posto in Oscurantismi così disonorevoli e pericolosi. Nobiluomini nell’animo, eleganti e retti, moralmente e fisicamente distrutti da traditori e giocatori di potere sregolati, privi di lealtà o empatia; eppure, ambedue portatori sacrificali della speranza per le generazioni successive. Senza parlare del trionfo 3D di “Avatar” nel 2009: citazione diretta, o meglio quasi plagio duniano, di un James Cameron… che ha fatto di molto meglio.

Herbert racconta “Dune” sfidandoci. Gestisce oltre il limite della ragione la narrazione, anticipando più volte il finale ma riuscendo a mantenere tesissimo lo stile. Già nei primi capitoli preannuncia la tragedia della Casa Atreides. Ancora prima, nelle poetiche citazioni metaromanzesche poste come introduzioni in testa a ciascun capitolo, l’autore sembra confidare al lettore attento la conferma delle sue intuizioni; svela addirittura il trionfo finale dell’eroe. Ma la tensione aumenta di pagina in pagina, invece di calare. Muad’Dib rimane ignoto fino a metà libro e da metà in poi diviene sempre più misterioso, enigmatico, affascinante e spaventoso. E il fine di tutte le cose, il risultato ultimo della vicenda, è ancora più interessante una volta capito e gustato il modo dello svolgersi, il “come” del tutto.

Il valore di “Dune” è nel contrasto tra pensiero, parola e azione.

I pensieri sono esplicitati esattamente come i dialoghi, mantenendo un continuo gioco tra ciò che si nasconde nella mente e ciò che si svela in pubblico; ipocrisia, sotterfugio, prudenza, diplomazia sono concetti resi plastici. Il primo risultato è renderci simpatica ogni personalità: il lettore è in intimità immediata con buoni e cattivi; il secondo risultato è essere catapultati nel bel mezzo di una serrata partita a scacchi, nella quale siamo contemporaneamente sfidante e sfidato, sia Garry Kasparov che Anatoly Karpov.

La gestione dei molti personaggi è dialogata: sono tutti ritratti in sequenze impostate come scene teatrali, attori recitanti linee di scambio verbale irrequiete e dettagliate, esposte contro quinte scenografiche. Ogni sequenza di dialoghi occupa un capitolo, composto quindi da episodi ben isolati in unità di tempo e di luogo. Ogni capitolo fornisce sempre più informazioni, suspense ed emozioni legate a eventi precisi. L’accumularsi dei capitoli episodici compone il mosaico dell’epopea.

L’azione epica, soprattutto di gruppo, in teoria abbonda ma nel concreto è raramente rappresentata, spesso lasciata fuori scena. Se ne raccontano prima le cause, tramite selezionate figure umane; poi il “durante”, tra rumori e tremiti lontani; e, in seguito, le conseguenze sui burattini viventi investiti, o meglio travolti dalla guerra. Le poche volte che viene mostrata, l’azione è velocissima e micidiale. Rarissimi sono gli atti eroici mostrati nel dettaglio: è un pugno di sospirate situazioni fondamentali che in ultima analisi dettano il ritmo globale.

Liquidi, profondi pozzi di quiete apparente nei quali si scava nell’umanità dei personaggi, per poi devastarla in scoppi di violenza improvvisi ma a lungo attesi.

Contrapposti e fusi al pensiero espresso, alla parola scambiata e all’azione sottintesa, vi sono gli incredibili accenni minimali a un Universo sociale, politico e naturale/ecologico immenso e ragionatissimo.

“Dune” inizia con l’idea fantasociologica: l’esplorazione dell’effetto catastrofico di un “messia” sul consesso umano. La figura messianica suggerisce a Herbert l’ambientazione desertica. La passione per l’ecologia porta all’ideazione di Arrakis, detto Dune dai suoi abitanti: il dettagliato sistema che vi vive è il mistero centrale della storia, svelato poco a poco. L’autore avrebbe potuto anche scrivere un buon romanzo nel quale il pianeta fosse stato solo lo scenario di scene d’azione esotiche. Ma l’attenzione si sposta sulle grandi questioni politiche del futuristico, vasto Impero interplanetario che fa da sfondo spazio-temporale alla vicenda. L’ecologia del pianeta è alla base dei rapporti di forza cosmici tramite l’invenzione fondamentale della Spezia Melange, la droga profetica, moneta di scambio nell’economia galattica, che si trova solo su Arrakis. La politica dell’Impero è un’estensione del sistema ambientale duniano: gli studi sull’ecologia planetaria costruiscono un intero universo. Il risultato è un’incredibile profondità di dettagli. Nozioni storiche, leggi, usi e costumi: ogni frammento di informazione contribuisce a rendere sempre più deflagrante la miscela esplosiva di Herbert, nella quale la prospettiva varia in continuazione dall’infinitesimale delle gocce d’acqua allo splendore cosmico della storia galattica.

I due poli che gravitano il protagonista, posto al centro esatto di immense forze opposte, sono clamorosi. Da un lato i Fremen, dall’altro l’Imperium.

I Fremen sono sviluppati all’inverosimile. Poche descrizioni impressioniste ma tantissimi ed entusiasmanti scambi verbali, gesti quotidiani, poesie e filosofie, inventivi sfoggi linguistici, prospettive storiche, azioni lampo scioccanti. Concepiti come a metà tra gli abitanti del deserto del Sahara e gli indiani d’America, ma ancora più vasti di Sioux o Tuareg; eredi diretti dei barbari invasori della metà del primo Millennio, Unni in testa; con il decisivo tocco drammatico delle storiche/leggendarie migrazioni ebraiche e quelle africane contemporanee. Gente sofferente che infligge sofferenza, dalla raffinata cultura “povera” ma ricercata, con una forza tremenda quando si tratta di perseguire l’ideale, per quanto suicida. I Fremen sono terrificanti e coinvolgenti, sia antipatici che simpatici: non si sa se odiarli o amarli. Dotati di una fedeltà pura e incontaminata che li rende l’esatto gemello selvaggio dei compassati e rigidi Atreides.

L’Imperium duniano è un variegato e coloratissimo cosmo decadente e riconoscibile. I pezzi del puzzle sono tanti, suggeriti dall’autore e non spiattellati, da collegare tra loro in autonomia. Per questo tutti indimenticabili: l’Imperatore, i Sardaukar, le concubine, la Gilda Spaziale, il Bene Gesserit, le Case del Landsraad, la CHOAM, i Mentat del Bene Tleilax, i Maestri degli Assassini, gli Arbitri del Cambio, il Faufreluches, la Bibbia Cattolica Orangista, i medici Suk, ecc ecc. Reggenze e corporazioni, nobili e popolino, élite e lobby, canoniche e arene. Immagine alternativa dell’ultimo periodo dell’Impero Romano, prima della caduta, con formalismi bizantini, complessità orientali e rapporti di forza simili al XIX Secolo europeo. Un vasto acquario vivente sempre più feroce, ricco e stordente - come del resto è ciò che ci circonda nella realtà quotidiana. L’Imperatore Padiscià Shaddam IV della famiglia reale dei Corrino, in tutto questo, è la figura centrale apparentemente poco sviluppata. Il fatto è che la sua sola citazione, una presenza nominata ma costante per gran parte del libro, definisce e legittima tutto il resto. Lo si dipinge perfettamente senza doverlo quasi mai mostrare; quando si deve presentarlo, gli si lascia conquistare la scena.

Molti ancora non capiscono il senso di “Dune”. Lynch, che aveva capito solo il proprio ego artistico industriale e post-industriale, è in buonissima compagnia. Di solito chi rimane affascinato solamente dai pugnali Cryss o dalla sabbia di Creatore, di Herbert gli importa molto poco.

La complessità é fatta da vari livelli di lettura. Un primo può essere legato al capolavoro biografico “Lawrence d’Arabia”, il grande film di David Lean datato 1962 sulla figura storica della Prima guerra mondiale. Le dinamiche politiche di “Dune” sono simili a quelle dell’Inghilterra nel primo Dopoguerra: la Spezia é il petrolio, l’Imperatore sono gli alleati e l’alto comando inglese, Muad’Dib é El Orens, gli Harkonnen sono la Francia, i Fremen sono i popoli arabi di re Faysal. Analogie forse semplicistiche ma illuminanti. Però le ripercussioni storiche che Herbert capisce sono trasfigurate nel mondo contemporaneo - citando tre tematiche fondamentali della nostra vita reale: il problema energetico, la questione araba, i flussi migratori. “Dune” è familiare con la nostra Terra reale e attuale.

Andando oltre: i Fremen. I molti milioni di padroni del pianeta Dune, a sua volta pianeta “padrone” dell’universo umano poiché con la Spezia ne ha in mano le vite.

Molti milioni di sanguinari combattenti, non le poche migliaia di pezzenti che l’Imperium crede.

Molti milioni di furbi affaristi in trattative segrete con la corrotta Gilda Spaziale.

Molti milioni di raffinati filosofi in azione millenaria per cambiare la natura.

Molti milioni di superuomini schiavi di una religione artificiale, di un pianeta assassino, di un sistema disumano e di un sogno eterno; non uomini autonomi. Serve loro chi li liberi dai legacci esterni per scatenarne istinti bestiali da troppo sopiti.

Paul Atreides offre loro un mezzo per sfogarsi, non offre loro alcun obiettivo che non abbiano già ben fisso in mente.

L’obiettivo reale dell’immenso sommovimento tettonico di sterminate masse umane nello spazio… appartiene solo a Paul. Ed è: “O tento di salvare nei millenni il genere umano rinnovandolo purtroppo con la violenza, o lo distruggo subito”.

La limitazione fisica della distesa sabbiosa di Dune, nel tentativo di trasformare l’orrendamente ocra pianeta Arrakis in un paradiso verde e azzurro terrestroide, non è la distruzione del deserto. L’oasi planetaria serve ai Fremen per dar loro una patria sognata, un Eden in terra; non serve a Paul Atreides, anzi. Lui sfrutta l’inferno delle dune di sabbia (figlie dei Creatori, madri della Spezia e padrone dei Fremen) per avere gli strumenti, il mezzo per rivoluzionare l’universo, il cosmo umano, secondo i propri alti fini “previsti” da Mentat mutato. I miliardi di calcoli probabilistici e visionari operati in un istante dal Profeta del Melange lo obbligano a scorgere, nella mistica preveggenza, ciò che serve fare… ossia staccare l’umanità dai troppi limiti che si è imposta: la dipendenza dalla droga che allunga e svuota la vita, l’assenza di progresso tecnologico e sociale, la stagnazione culturale, la mancanza di empatia e pietà sociale, l’assolutismo omicida del monopolio, l’isolamento suicida.

Ho letto “Dune” decine di volte da quando avevo quattordici anni, circa trentatré anni fa. Ossia da ragazzo, alla stessa età di Paul nel libro. Da allora ne sono ossessionato. Si tratta di un libro che amo alla follia: aspetto da lungo tempo una fedele e inventiva versione live action, interpretata da attori e regista di livello.

Il libro spinge, obbliga chi legge alla visualizzazione interpretativa, alla traduzione personale. Un esempio: Duncan Idaho… L’ho sempre immaginato come uno spadaccino da cappa e spada, duellante d’appendice, bellissimo, pelle nera e capelli crespi e lunghi, bastardo e affascinante. Un altro esempio: il Duca Rosso degli Atreidi l’ho sempre avuto in mente come un tipo turco/greco olivastro, alto, affilato e severissimo, un impassibile Priamo re di Troia pur di natura micenea… l’origine della linea Atreides è nella casa di Atreo della mitologia greca che, nell’Iliade di Omero, è padre degli Atridi Agamennone e Menelao (“Atreo” deriva dalle parole greche ateirés, “indomabile”, àtreston: “intrepido”, ateròn: “accecato dal male”). Infine, Stilgar e tutti i Fremen, raffigurati direttamente come veri Tuareg marocchini, libici, algerini nordafricani – per estensione: sahariani, afghani, arabi.

 

Jodorowsky, 1975

 

Un esempio di “fedele invenzione” è il cast disegnato dal grande fumettista francese Jean “Moebius” Giraud nel 1974/1976 per il film fallito di Alejandro Jodorowsky: una visualizzazione geniale. Moebius aveva immaginato il guerriero menestrello Gurney Halleck come un nano orrendo, sfregiato e letale; il vecchio Mentat assassino Thufir Hawat come un gigante nordico imponente, baffuto e senza una gamba; il terribile Barone Harkonnen come un obeso bambinesco ed effeminato, truccatissimo, nudo e cosparso di collane di perline.

Quella del multi-artista, pluri-filosofo e pan-creativo Jodorowsky (Acquario nato il 17 gennaio 1933) sarebbe stata una versione alternativa ed estrema di “Dune”, puro surreale in forma di megakolossal Sci-fi/Horror, visionario e immaginifico. Il regista franco-cileno veniva dai film Underground “El Topo” (1970), un Western psico-acido, e “La Montagna Sacra” (1973), altro Western alchemico-esoterico: roba per palati fini e stomaci forti. Egli, in miracoloso possesso di un budget milionario di origine francese, avrebbe “tradito ma rispettato” l’eccelsa opera letteraria, che paragonava apertamente a Proust. “Dune non appartiene a Herbert come Don Chisciotte non appartiene a Cervantes né Edipo a Eschilo”, diceva. Non voleva seguire alla lettera il romanzo, voleva ricrearlo in un’estasi allucinogena molto adatta ai tempi.

Nel film, il Duca Leto sarebbe stato un uomo castrato dopo il combattimento rituale nell’arena del toro – l’emblema degli Atreides, qui, non è più un falco rosso su campo neroverde ma un toro incoronato. Jessica, una monaca o suora delle Bene Gesserit, gli viene mandata come concubina per generare la figlia destinata a essere madre del messia. Ma i due si innamorano e lei decide di saltare una generazione per dar vita a un figlio maschio, il Kwisatz Haderach, il salvatore. Leto, follemente infatuato, rivela a Jessica il triste segreto: non ha seme, non è fertile. Lei quindi usa le capacità Bene Gesserit e si fa inseminare da una goccia di sangue di quest’uomo sterile. La telecamera seguiva, nello storyboard, la goccia di sangue del maschio che si fa largo nelle ovaie, dove si fonde con la carne della femmina. In un’esplosione miracolosa, appare la vita. Paul nasce quindi da una madre vergine e non dallo sperma, ma dal sangue del padre.

Alla fine del film la concubina Bene Gesserit del Conte Fenring, Lady Margot, salta addosso al vittorioso Fremen Paul Muad’Dib e gli taglia la gola. Pur morente, l’eroe afferma che è troppo tardi: lui non può essere ucciso. Le ultime parole si smorzano e la voce di Paul risuona prima dalla bocca di Jessica e poi dalle bocche di tutti i Fremen presenti: il Kwisatz Haderach parla come Uomo Collettivo, l’essere umano multiplo che mostra la strada alla specie. Questo ragazzo (Muad’Dib), poi un popolo (i Fremen), infine un intero pianeta (Arrakis) sono “illuminati” in un finale che trasmuta alchemicamente la materia; il mondo stesso viaggia fisicamente fuori dall’orbita e, contro ogni legge gravitazionale e fisica, si inoltra nella galassia, per diffondere la luce messianica...

Motivatissimo, il regista viaggia tra Europa e America per riunire coloro che chiama i “samurai” della squadra creativa. Coinvolge come consulenti guardie del corpo francesi, mistici zingari e guerriglieri sudamericani per addestrare gli attori - il figlio 12enne Brontis in primis, prescelto per essere Paul ed educato per anni alla logica e al combattimento fisico esattamente come il rampollo degli Atreidi. Jodorowsky attraversa il Sahara in pellegrinaggio, alla ricerca di panorami lunari: si accorda con il governo algerino per filmare nel parco nazionale desertico del Tassili, un sito archeologico Unesco nel sud dell’Algeria, a latitudini invivibili.

Jodorowsky a metà degli anni ’70 faceva parte del movimento surrealista. Il suo è un leggendario progetto fallito di film ultrafantastico. Cast e crew favolosi per una durata assurda di quattordici ore. Coinvolgeva geni del calibro dello svizzero H.R. Giger per il look degli Harkonnen; farà l’incredibile design tecno-organico di “Alien”. Lo straordinario illustratore Sci-fi inglese Chris Foss per il design delle astronavi organiche e dei pianeti metallici. I Pink Floyd, al massimo del successo artistico, e i Magma alla colonna sonora. Il regista e creativo visuale americano Dan O’Bannon per gli effetti speciali; scriverà la sceneggiatura di “Alien”. Il fumettista francese Moebius, proveniente dai fanta-fumetti culto di Métal Hurlant, direttamente al reparto visualizzazioni, costumi e storyboard. E, come attori… Salvador Dalì, il geniale artista spagnolo nel ruolo dell’Imperatore Padiscià Shaddam IV. Mick Jagger, il leader dei Rolling Stones come Feyd-Rautha Harkonnen. Orson Welles, il mitico regista americano nel ruolo del Barone Vladimir Harkonnen. La sexy Charlotte Rampling nel ruolo di Lady Jessica Atreides. La veterana Gloria Swanson, star di “Viale del tramonto” di Billy Wilder, nel ruolo della Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam. David Carradine, la leggenda del kung-fu e il Bill di Quentin Tarantino nel ruolo di Leto Atreides. La donna di Dalì Amanda Lear come Principessa Irulan. Geraldine Chapline come lady Margot. Udo Kier come Piter De Vries. Alain Delon come Duncan Idaho.

Un capolavoro caduto che, in ogni caso, ha dato il via ad altri grandi film fantastici dell’epoca ed enormi saghe moderne - da “Star Wars” di George Lucas (dal 1977 a oggi), attraverso “Conan il Barbaro” di John Milius (1982), “Alien” di Ridley Scott (1979/oggi, con “Prometheus” e seguiti), “Terminator” di James Cameron (1984/2015), fino al “Matrix” dei fratelli Wachowski (1999/2003).

La folle leggenda vivente Salvador Dalì, interpellato da Jodorowsky per il ruolo dell’Imperatore, rispose che avrebbe accettato solo a patto di passare alla storia per l’eccezionalità della sua partecipazione. Il che per lui sarebbe dovuto avvenire percependo il modico compenso di... 100mila dollari al giorno per sette giorni di riprese! Dalì si accontenta poi di 100mila dollari per un’ora. Jodorowsky taglia il ruolo al minimo e opta per girare gran parte delle scene con l’Imperatore usando il “sosia robot”: un vero robot di plastica identico al personaggio che viveva in simbiosi con la parte umana. Inoltre Dalì voleva a tutti i costi che gli venisse commissionata la scultura del Trono dorato del Leone imperiale: a forma di cesso, con due delfini intarsiati a raccogliere per i sudditi spaziali e distribuire loro dalle bocche, debitamente separati, la Sacra Cacca e il Sacro Piscio del Padiscià.

Allo Science+Fiction Festival triestino del 2014 ho visto finalmente il documentario “Jodorowsky’s Dune” di Frank Pavich (2013) sull’epico tentativo fallito di filmare il romanzo di Herbert. Un’opera troppo sintetica sulla mole di materiale prodotta a metà anni ’70 (soprattutto la straordinaria e leggendaria sceneggiatura illustrata, un “volume telefonico” di testi e vignette infiniti e dettagliati ma solo intravisti qui); eppure davvero emozionante. Significativo, il meglio per chi ama il romanzo herbertiano e la successiva graphic novel fantascientifica di Jodorowsky & Moebius “Incal” – che, dal 1980 al 1988, riprende molto dell’apparato concettuale e visivo di quel “Dune”. Mentre aspetto la pubblicazione dello storyboard come volume e il film animato che potrebbe uscirne, mi concentro su una cosa che non sapevo. La sequenza, visualizzata da Moebius, in cui il Mentat assassino Piter De Vries (Kier) e il Barone Vladimir Harkonnen (Welles) torturano il Duca Leto Atreides (Carradine). Piter prende una tenaglia di un metro e taglia, uno dopo l’altro, tutti gli arti al Duca immobilizzato e narcotizzato, ma cosciente; a partire dal braccio destro per finire con la gamba sinistra, lasciandone solo il torso agonizzante. Poi il Barone, insoddisfatto e impazzito, gli taglia la testa e scatena lo sterminio totale su Arrakis. Una roba devastante.

Troppo.

Tutto naufraga. Qualche anno e ci prova Ridley Scott, dopo “I duellanti” (1977) e “Alien” (1979) e prima di “Blade Runner” (1982): niente da fare. Subentra un’altra testa non da poco… l’affine visionario David Lynch. Un genio simile a Jodorowsky, non a caso affascinato dallo stesso materiale. Con “Dune” però sbaglierà film. L’opera di Lynch, in parte figlia di certe malattie concettuali e visive jodorowskyane, sarà formalmente bella ma esagerata, filmicamente scoordinata, inverosimile e grottesca, con un cast interessante ma lontano dalle pagine scritte. E, più che infedele, profondamente ignorante del primo libro: il capolavoro che, nonostante tutto, è molto cinematografico. Se ridotto in più episodi.

Tra i tanti artisti sconvolti dal capolavoro della Fantascienza, quelli del Rock sono in primissima linea. Dopo i Pink Floyd di Roger Waters (per Jodorowsky) e prima dei Toto con Brian Eno (per Lynch), ecco gli Iron Maiden, il famoso gruppo inglese Heavy Metal. Guidati dalla voce di Bruce Dickinson e dalla basso di Steve Harris, anticipano il film di Lynch omaggiando “Dune” in “Piece of Mind”, il loro quarto album pubblicato nel maggio ’83. Un grande successo di critica e di vendite, dedicato agli interessi letterari dei membri del gruppo, da Lord Tennyson a G.K. Chesterton; chiuso dalla nona traccia, scritta da Harris: “To Tame a Land”. La lunga canzone, sfrenata ed epica, è un esplicito omaggio al libro di Herbert. Doveva intitolarsi proprio “Dune” ma l’autore americano lo impedì, poiché “a Herbert non piacciono le rock band, in particolare le band heavy metal, e specialmente band come gli Iron Maiden”… Se il titolo si trasforma, per questioni di diritti, in “Dominare una terra”, il testo emoziona l’appassionato duniano anche a digiuno del genere musicale: è la riduzione poetica della storia di Paul Atreides e dei suoi Fremen, sottolineata da sonorità dure ma anche arabeggianti. Nella sua diretta semplicità, è più fedele all’opera letteraria di quanto non sarà il kolossal in arrivo l’anno dopo…

 

Lynch, 1984

 

Il “Dune” di David Lynch tra letteratura e cinema. Analisi di un cult movie... fallito.

È il terzo grande film di David Keith Lynch (un altro Acquario nato il 20 gennaio 1946). Nel 1982, dopo gli straordinari “Eraserhead” e “The Elephant Man”, l’autore 36enne rinuncia alla regia de “Il ritorno dello Jedi”, allora l’ultimo episodio di Star Wars, e accetta di realizzare la personale saga fantascientifica... un film tratto dal già leggendario capolavoro letterario di Frank Herbert: “Dune”. Il produttore Dino De Laurentiis affida al giovane ma talentuoso regista la responsabilità di un ambiziosissimo progetto kolossal. Lynch si occupa sia della sceneggiatura che della regia. La produzione è lunga e travagliata. Lo stesso Herbert visita il set e concede il suo consenso a molte scelte, contento che l’intenzione hollywoodiana sia rimanere fedele allo spirito e alla trama del libro. L’opera filmica risultante viene distribuita nel 1984: il risultato è devastante… un film distrutto dai tagli di produzione, capace di essere altisonante ma incapace di trasmettere sullo schermo e rendere comprensibile al grande pubblico la complessità e la profondità del materiale herbertiano. Il flop al botteghino è terribile, De Laurentiis ancora oggi conta i milioni di dollari persi. “Dune” si guadagna in ogni caso lo status di cult movie: la carica visionaria è indubbia, i momenti epici numerosi e i legami col popolare romanzo d’origine restano forti. Il film è stato in parte rivalutato soprattutto negli ultimi anni, sia perché inserito nella filmografia magistrale del cineasta americano, sia per i duraturi effetti nel cinema del genere.

I difetti di concezione e scrittura, da parte di Lynch, rimangono decisivi. Anche grazie all’esemplare “The Lord of the Rings” 2001/2003 di Peter Jackson da Tolkien, è sempre più evidente che la fedeltà all’opera letteraria d’origine da parte di un film derivato è da giudicare soprattutto in relazione alla fedeltà allo spirito e alla logica delle pagine. La qualità dell’opera cinematografica “ispirata” è legata, fatalmente, alla comprensione e al rispetto del testo che ne sta alla base: certi delicati meccanismi vanno salvaguardati, pena il crollo dell’impalcatura.

Vediamo quindi di analizzare il film 1984 in riferimento al romanzo, per capire cosa non ha funzionato sul grande schermo... invitando alla scoperta (o riscoperta) del magistrale “Dune” letterario.

Sono azzeccati l’apparato visivo e ambientale del film, la suggestiva musica rock sinfonica di Brian Eno e dei Toto, il tono a volte teatrale a volte enfatico, l’impettita atmosfera militaresca, certi attori, la raffinatezza scenografica e di tanti (non tutti) costumi – materia in linea con l’opera letteraria originale e ancora oggi emozionante. Un Universo formalmente “fantarinascimentale”, o meglio ancora “fantanapoleonico”, o meglio ancora “fantagrandeguerra” più che fantamedievale, con tutto quanto di interessante ne consegue. I problemi si pongono nella mancanza di una motivazione e di un significato per il particolare scenario arcaico. L’incomprensibile scade nella noia. Si confuta di continuo l’assunto visivo base: il “rétro”. In una parola, l’illogica invadenza della modernissima, ultramoderna, postmoderna iper-tecnologia nel pesante script. Intendiamoci: certa (precisa, limitata, originale) supertecnologia esiste anche nell’Universo fantascientifico e futurista del “Dune” letterario; ma è fondamentale, per la storia stessa di Herbert, capire perché tali supertecnologie non si vogliano usare... e non si possano usare! A livello logico e filosofico.

Il libro “Dune” è puramente antropocentrico e antitecnologico. Serve comprendere il valore assoluto, nell’Universo duniano, di tre elementi base del plot di Herbert, allegramente dimenticati al cinema…

1. La civiltà umana è impantanata, priva di espansione e differenze, senza progresso né civile, né sociale, né tecnologico. Esprime un unico organismo socio-politico dominante, incontrastato e autocratico: l’Imperium. Che, ovviamente, è da secoli in disfacimento, chiuso e prigioniero di un Potere mistificatore, fermo a un livello evolutivo primitivo, questo sì simil-medievale: sovranità assoluta, feudi ereditari, faide familiari, caste privilegiate e classi. È il Faufreluches: il granitico sistema centralizzato e gerarchizzato che blocca l’umanità. Il tutto è un enorme castello di carte fragilissimo che poggia, per la convivenza, su basi amorali e su una struttura di guerra civile continua e controllata. I tanti “inferiori” fanno vite da schiavi; i pochi “superiori” si sfogano odiandosi a vicenda, gestiti da un monarca assoluto che ha interesse nella loro divisione fratricida. Si esalta la violenza e la vendetta: in primo luogo, il combattimento corpo a corpo all’arma bianca e all’ultimo sangue tra guerrieri scelti; in secondo luogo, il Kanly, ossia l’indispensabile faida vendicativa tra fazioni ereditarie regolata da una surreale manualistica di leggi, divieti e ruoli. Più è grande la costruzione umana, più la caduta è devastante, se le fondamenta e le colonne sono inadeguate; infatti, il rischio qui è la pura e semplice estinzione degli esseri umani per implosione.

2. A livello esteriore, di fisico umano (corpo), l’unica invenzione tecnoscientifica è l’effetto Holtzman e il suo impiego antigravitazionale, ovviamente materialista, antifilosofico e utilitaristico: armi (lo scudo corporale dei duellanti), motori (i viaggi ultraluce dei trasporti della Gilda Spaziale), accessori (i vari sospensori). Tutto il resto della scienza tecnica complessa, l’intelligenza artificiale/robotica per prima, è un tabù storico che indirizza la vita di ciascuno; trionfa, invece, la semplice meccanica in un’abbondanza di molle, sensori, ingranaggi e valvole. In realtà, le invenzioni che dovrebbero realizzare nel concreto l’inespresso potenziale umano sono tre, tutte “organiche”: le tante droghe, i molti veleni e i vari tipi di addestramento simil-marziale. La droga più famosa è la Spezia Melange di Arrakis, basilare per la sopravvivenza fisica degli abitanti dell’Impero, per la percezione allucinata delle rotte stellari da parte dei Navigatori della Gilda e per un tentativo di evoluzione fisiologica e civile; ma abbiamo anche il Sapho dei Mentat che concentra la mente per i calcoli ultraveloci, l’Elacca che anestetizza l’istinto di sopravvivenza, la Semuta che fa vibrare e cantare il cervello, ecc. I veleni sono il Chaumas per il cibo, il Chaumurky per le bevande, quelli per i proiettili, per le lame da combattimento, per i Cercatori Assassini, per gli aghi Gom Jabbar o in forma di gas, sia letali che stimolanti che narcotici: tutti catalogati nel Manuale degli Assassini, compresi i basilari Rilevatori da tavola o da stanza; inoltre la terrificante Acqua della Vita per le Reverende Madri Bene Gesserit e il Veleno Residuo del Mentat distorto De Vries. Gli addestramenti sono tutti segretissimi, disumani e distintivi di gruppi politici più simili a sette: il Prana-Bindu “Estraniante” delle Bene Gesserit, quello matematico dei Mentat Tleilaxu, quello probabilistico dei viaggiatori interstellari della Gilda, i vari codici familiari di comunicazione linguistica, ecc. Invenzioni che tatticamente paiono utili all’evoluzione dell’uomo ma strategicamente lo infilano in un vicolo cieco suicida.

3. A livello interiore, di psicologia umana (mente), assumono un ruolo fondamentale, in questa società arretrata e ferma, la motivazione fanatica delle due forze dinamiche che influiscono, uniche, sui macro-eventi, sulla Storia: il gruppo nazi-militare dei Sardaukar e il gruppo fondamentalista-militare dei Fremen. “Dune” è tutto giocato sulle loro azioni (dis)uguali e contrarie, il che porta a uno studio psicologico della religione e dell’esaltazione religiosa come ultima forza sociale. Si inizia con i Sardaukar, mistica forza conservatrice e “reazionaria”; si finisce con i Fremen, mistica forza rivoluzionaria e “progressista”. I Sardaukar e i Fremen sono letteralmente imbattibili perché interiormente, psicologicamente, mentalmente esaltati, fanatici. I primi adorano il loro Imperatore, che li fa nascere e sopravvivere su Salusa Secundus tra le torture imposte dalla convenienza politica, con la facile promessa di paradisi materiali. I secondi adorano Paul Muad’Dib, che vive con loro le torture subite su Arrakis dal destino, con la difficile promessa di un paradiso spirituale. I Fremen vinceranno per questo: le torture che infligge Arrakis “Dune” sono ben peggiori di quelle inflitte su Salusa Secundus; e una redenzione plurigenerazionale è una motivazione molto più potente dei piaceri egoistici della carne. Gli indigeni invasati di Dune saranno quindi inarrestabili nella loro spaventosa orda vendicatrice finale, la Jihad di Muad’Dib - necessità di rinnovamento galattico con un prezzo terribile da pagare.

Nel pur bel film 1984 tutti questi elementi base si perdono, clamorosamente.

Vi si punta al più facile e fuorviante elemento narrativo della tecnologia - che nel romanzo e nella storia originale è per certi versi inesistente. Al cinema, i fucili laser e il Modulo Estraniante di Lynch sono artifici della sceneggiatura esemplificativi di un’intrusiva fanta-tecnologia e di un’esagerazione di superarmi tecnologiche che, in “Dune”, sono totalmente fuori contesto e fuori tema.

Fucili laser… questo comodo e banale tipo di arma è con tutta evidenza usatissimo dai Sardaukar del film poiché, per quell’immatura Fantascienza filmica, è considerato immancabile e obbligatorio per una società militarista del futuro. Nel libro, invece, tutta la civiltà umana e l’intera ecologia aliena sono attentamente forgiate per motivarne un uso, se non moderatissimo, addirittura inesistente!

Modulo Estraniante… il cosiddetto Weirding Module è ancora peggio. L’arma sonica degli Atreides, inesistente nel libro, nel film storpia in ogni senso la Weirding Way originale, ossia il nome che i Fremen danno al durissimo addestramento mentale e fisico delle Bene Gesserit (il Prana-Bindu). Insomma, il concetto puramente lynchano della pistoletta meccanico-elettronica da bocca ideata dai tecnici Atreides che rende invincibili i Fremen filmici, pur a suo modo cinematograficamente interessante e vagamente connessa alla Voce Bene Gesserit, distrugge l’assunto base del libro e della storia di “Dune”: l’uomo, o meglio il corpo/mente umani, come strumenti perfetti e armi definitive.

Del resto il libro è un trattato, in forma di meraviglioso romanzo d’avventura epica, sulla psicologia e fisiologia dell’Uomo in relazione agli Ambienti (ecologici, sociali, politici, ecc) in cui vive. Ed è lì la potenza incredibile e l’originalità epocale dell’opera letteraria, e il suo stesso profondissimo messaggio – e perdurante spirito. Lynch a livello formale riesce a cogliere parte di questo, costruendo un vero film di culto; ma a livello narrativo/logico/spirituale floppa alla grande. Il film infatti è generalmente considerato senza senso dallo spettatore medio, “a digiuno della Spezia”; o vuoto e superficiale dai fan dei Fremen. Questo, senza tenere conto dei comunque gravi tagli operati da un apparato produttivo incapace di guidare e sostenere l’ancora inesperto genio cinematografico di David Lynch.

I puri e spietati Fremen sono esaltati religiosi guidati da un ragazzo/dio che vuole essere un ragazzo e non vuole essere un dio... Il ragazzo/dio è tante personalità e tanti concetti insieme. Il giovane protagonista Paul Atreides, che è conscio della sua dannazione, dell’inganno, dell’orrore; ma conscio pure del fatto che il sacrificio suo e di miliardi di esseri umani è indispensabile per ridare spinta a un’umanità e a una Storia umana ormai stanca e suicida. L’uomo mutante Paul Muad’Dib è potenzialmente illimitato come fisico e mente, ma allo stesso tempo fatalmente limitato e schiavo del Tempo: lotta senza posa, disperatamente contro il suo passare e infine perde, tristemente catturato nella crono-trappola. Il mutato Kwisatz Haderach, l’Essere Supremo, l’onnisciente preveggente probabilistico che sente in sé le esperienze vissute da tutte le donne e da tutti gli uomini prima di lui, è il fallimento più grande e drammatico, ma necessario e prezioso, della Storia dell’Uomo.

Il filmone irrisolto di David Lynch ’84, pur nel rimpianto di “ciò che avrebbe potuto essere stato” sul grande schermo, tra i molti meriti ha sicuramente quello di aver fatto conoscere ancora di più quello che è uno dei capolavori della letteratura. È una contraddittoria produzione dal grosso budget e dal cast strepitosamente alla moda, con evidenti difetti narrativi ma dal fascino indiscutibile: inevitabile fallimento al botteghino che segna una pagina fondamentale del cinema di Fantascienza.

 

Harrison, 2000 e 2003

 

Frank Herbert scrive, nel frattempo, cinque seguiti per il capolavoro del ’65: il secco, triste “Dune Messiah” nel 1969 (in Italia “Messia di Dune”) e il mastodontico, polimorfo “Children of Dune” nel 1977 (“I figli di Dune”) che chiudono la storia di Paul Atreides; l’allucinato, inquietante “God Emperor of Dune” nel 1981 (“L’imperatore-dio di Dune”) che porta avanti quella del figlio Leto II; gli oscuri e un po’ astrusi “Heretics of Dune” nel 1984 (“Gli eretici di Dune”) e “Chapterhouse Dune” nel 1985 (“La rifondazione di Dune”) che dilatano l’Universo oltre l’immaginabile e il comprensibile. Muore un anno dopo l’ultimo libro.

Passano una dozzina di anni. Il figlio dell’autore, Brian, tira fuori dalle casseforti blindate gli appunti paterni, l’opera maniacale di una vita. Cerca l’aiuto dell’esperto Kevin J. Anderson, penna di molti romanzi estrapolati da Star Wars. Pubblica gli attesissimi e controversi libri postumi che ampliano la serie originale in una sorta di smisurata soap opera familiare multi-generazionale. Interessante e profonda ma alla fine artificiosa e un po’ noiosa. Si tratta di…

Una prima trilogia prequel “Preludio a Dune”, che narra la giovinezza dei maturi capifamiglia delle tre Case causa della guerra civile di Dune 1 (composta da “House Atreides”, 1999 - pubblicato in Italia nei due volumi “Il preludio a Dune 1: Casa Atreides”, 2001 e “Il preludio a Dune 2: Il Duca Leto”, 2003; “House Harkonnen”, 2000 - pubblicato in Italia nei due volumi “Preludio a Dune 3: I ribelli dell’Impero”, 2003 e “Preludio a Dune 4: Vendetta Harkonnen”, 2004; “House Corrino” 2001, da noi inedito).

Una seconda trilogia prequel “Legends of Dune”, che esplora il passato remoto dell’Imperium, l’origine politica e tecnica dello status quo (da noi inedita: “The Butlerian Jihad” sul devastante Jihad Butleriano contro le macchine pensanti, 2002; “The Machine Crusade” sulla fine della guerra uomini/robot, 2003; “The Battle of Corrin” sull’ascesa della Casa regnante dei Corrino e l’inizio dell’epoca dei Faufreluches, 2004).

Un doppio sequel denominato “Dune 7”, che delucida e termina la storia pur non esaurendo l’Universo duniano (da noi inedito: “Hunters of Dune”, 2006; “Sandworms of Dune”, 2007).

Una tetralogia interquel incompleta “Heroes of Dune”, che intende spiegare gli scritti frammentari, se non fumosi, di Frank Herbert a seguito del più spettacolare e accessibile romanzo originale (da noi inedita: per ora solo “Paul of Dune”, 2008 e “The Winds of Dune”, 2009).

Una trilogia sequel del prequel “Great Schools of Dune”, che tira le fila delle potenti sette sullo sfondo della più eroica faida Atreides/Harkonnen/Corrino narrata in Preludio (“Sisterhood of Dune” sul Bene Gesserit, 2012; “Mentats of Dune” sul Bene Tleilax, 2014; “Navigators of Dune” sulla Gilda Spaziale, 2016).

Più sette racconti da noi inediti, pubblicati dal 2001 al 2011… Una cosa è certa: con tutti questi libri Brian dimostra lo stesso amore filiale che Paul dimostrava nei confronti del mitizzato Duca Leto. “Paul of Dune” del 2008 è tra i testi postumi più significativi: gli autori riescono a spiegare l’intricata situazione imbastita da Frank Herbert in “Messia di Dune”, mostrando ciò che allora veniva solo accennato secondo il classico stile aspro e stringato. Il risultato è una buona Space-opera che, pur portando Dune in direzioni forse non volute dall’autore originale e in modi non certo letterariamente eccelsi, soddisfa e diverte.

Serve sempre esaudire la richiesta pressante di un “Dune” nuovo, attualizzato, espanso e live action. Adatto ai tempi. Sfogo per lettori affamati e per creativi ossessionati. Di conseguenza, allo stesso tempo dei primi libri di Brian l’americano Sci-Fi Channel programma l’ambiziosa miniserie tv in tre puntate “Frank Herbert’s Dune”, che fin dal titolo intenderebbe sottolineare il rispetto assoluto delle pagine herbertiane - cosa che Lynch si guardò bene dal mostrare.

La miniserie del 2000, realizzata nei dintorni di Praga, vede un bolso William Hurt come Duca Leto Atreides e un incerto Giancarlo Giannini nei panni speculari dell’Imperatore Shaddam IV; poi la fotografia esageratissima di Vittorio Storaro e i costumi discontinui di Theodor Pistek, Oscar per “Amadeus” di Milos Forman (1984). Sceneggiatore e regista è tale John Harrison (un altro Acquario nato il 20 gennaio 1946), un allievo di sua santità George A. “Zombi” Romero. Dal budget strombazzatissimo, scritta così così, interpretata da attori modesti che introducono un nervosismo recitativo fuori luogo, diretta in modo piatto… Nonostante i proclami dell’autore, è un minestrone da piccolo schermo che si mantiene tristemente sulla falsariga cinematografica dell’84. Se ne evitano con estrema attenzione gli errori più marchiani ma non si sa correggerli con la necessaria comprensione della trama letteraria. Si continuano a fallire i punti chiave: la pericolosissima decadenza sociale di quel mondo, la stanca assenza di speranza evolutiva e la potenza puramente rivoluzionaria dei nobili vandali Fremen – qui, più straccioni e poveracci che mai. Peccato capitale: Harrison manca del tutto della selvaggia capacità rappresentativa di un genio del cinema come Lynch; cerca sempre soluzioni facili che evidenziano le scenografie di cartapesta e la sabbia portata a sacchi nella finzione degli studi. La storia, profondamente destabilizzante e spaventosamente attuale, viene normalizzata in un concept visivo a volte ridicolo e limitato dalla grafica da quattro soldi. Eppure, la forza intrinseca di “Dune” è così autentica, l’impegno così sincero e lo svolgimento così affascinante che se ne produce e ottiene un ottimo successo televisivo. Sotto certi aspetti, è l’interessante tentativo di teatralizzazione shakespeariana della Sci-fi. Di certo guardabile sia da curiosi che da esperti.

La seconda miniserie, “Frank Herbert’s Children of Dune”, scritta ancora da Harrison e diretta da Greg Yaitanes, traduce in tre episodi il secondo agile romanzo (“Messia di Dune” ’69) e il terzo, più voluminoso (“I figli di Dune” ’76) del ciclo. Parte 1, Messia, è buona: degli attori dalla miniserie originale cambiano solo Duncan e Jessica, ma sono quasi tutti praticamente perfetti; Santa Alia del Coltello, sorella di Muad’Dib, è una ballerina e modella greca colta, bellissima e magnetica. La musica è notevole. La sintesi della storia riesce ad avere un significato, le atmosfere sono coinvolgenti con diversi grandi momenti. Purtroppo parti 2 e 3, alias i Figli, cede. È come il Sentiero Dorato recitato da Leto II/McAvoy: “Un passo avanti, un passo indietro”. In ultima analisi la miniserie è bella ma deludente. Il terzo libro di Dune e la saga stessa sono molto complessi, la superficialità è quasi inevitabile, ma tagliare via proprio il senso ultimo della trama è inaccettabile. Rimangono sospese e senza risposta le domande principe alla base dell’opera: cos’è il Sentiero Dorato e perché è obbligatorio? Perché Paul Atreides vi rinuncia? Perché Alia Atreides impazzisce e i figli di Paul e Chani no? In cosa si trasforma Leto II?

Non è spiegata l’Abominazione Bene Gesserit. Alia Atreides e i due figli di Paul, Leto II e Ghanima, sono pre-nati: ancor prima di nascere, consapevoli dei ricordi genetici delle vite ancestrali. Nelle teste dei bambini pre-nati le voci coscienti degli antenati-fantasmi sono adulte, moltissime e autonome: il rischio è la possessione. Nel caso di Alia, il nonno materno, padre di Lady Jessica, il diabolico Vladimir Harkonnen si impadronisce della sua coscienza. La ragazza per sopravvivere fa un patto con il luciferino Barone, il quale però ne conquista la mente e la fa impazzire, trasformandola nel villain dell’opera. I gemelli hanno lo stesso problema ma qui non ci viene affatto spiegato come lo superino! Nel libro Ghanima si auto-ipnotizza per credere il fratello ucciso e lasciarlo fuggire: l’intensa e continuata disciplina mentale necessaria le costruisce una zona ignota della coscienza vigile, nella quale la sua personalità originaria può crescere al sicuro. Leto invece si fabbrica la personalità da un “comitato esecutivo” di antenati: se tutte le entità più importanti lo possiedono allo stesso tempo, nessuno può dominarlo singolarmente. Su questi concetti pazzeschi la miniserie glissa.

Il Sentiero Dorato serve alla sopravvivenza del genere umano ma per attuarlo ci vogliono secoli, millenni di dominazione assoluta e disumana, nella quale disperdere gli uomini nello spazio distruggendo il Faufreluches. Paul non ha avuto il coraggio di perdere la sua umanità, Leto II invece indossa la “pelle della Trota delle sabbie” che gli consente una vita millenaria – diviene un Verme-Uomo immortale. Durante i successivi secoli (nel seguito “L’Imperatore-dio di Dune” dell’81) egli controllerà la Spezia, si farà odiare da molte generazioni umane e cambierà più volte il volto di Dune. I deserti spariranno e l’unico anello di collegamento con i vecchi Vermi sarà rappresentato proprio dal mostruoso ibrido che l’eroe si riduce a essere. i Vermi ritorneranno solo quando egli sceglierà di morire per scopi superiori. Anche questo nella miniserie manca.

Il prezzo da pagare per l’umanissima “vigliaccheria” di Paul Atreides alla fine di Dune 2, Messia, quando nonostante tutto è ancora Muad’Dib e non sarà mai l’Imperatore-dio del Sentiero Dorato, sarebbe addirittura l’estinzione degli uomini. In “Dune” tutto è sempre pompato all’ennesima potenza. Paul rinuncia (per motivi comunque complessi) e diventa l’eroe fallito che, di regola, è simpatico e commovente. Suo figlio Leto II si vede praticamente costretto a fare la scelta terribile di diventare un immortale uomo-bestia, per porre rimedio agli errori del padre e impedire che il genere umano finisca.

Questa miniserie tv è diretta bene ma sceneggiata da cani - da Harrison, l’autore della prima miniserie. In ogni caso, nonostante squilibri di scrittura e vuoti paurosi di ritmo e logica, più l’apparato visivo povero della precedente, il tutto rimane di grande fascino: buoni se non ottimi attori (Leto II/James McAvoy spacca, le tante protagoniste ragazze sono tutte stupende in primis la già citata Alia/Daniele Amavia); scenari ottimi; momenti epici... Certi personaggi e certe vicende sono maiuscoli: rimangono emozionanti e toccanti anche se raccontati male.

Complessivamente lo spettatore avverte la mancanza di qualcosa. Ad esempio, lo stesso ruolo del co-protagonista Farad’n Corrino, nipote del vecchio Imperatore Padiscià. Nel romanzo Leto II, incoronato Imperatore despota e inumano, espone la sua idea di re-introdurre il modello faraonico e decide che il nobile diventerà il suo scriba. Oltre tutto ordina che si sposi con la sorella per continuare la stirpe Atreides: Leto II non è più un uomo ma una bestia sterile.

Oppure il fondamentale tema religioso: come previsto dal veggente Paul in Dune 1, la sacra Jihad di Muad’Dib e il santo Qizarato Fremen (la chiesa organizzata del culto dell’imperatore Atreides divinizzato), dopo aver ammazzato nel fuoco mistico sessanta miliardi di esseri umani infedeli in dieci anni di guerre stellari, stanno disintegrando nella stagnazione l’intera umanità. Militarizzano/fanatizzano la galassia e limitano la produzione/diffusione della Spezia, sempre basilare per i viaggi interstellari e la longevità dei cittadini imperiali – tutti dipendenti. Quindi, compito sia di Paul, divenuto il misterioso Predicatore cieco anti-Muad’Dib, sia dell’Imperatore-dio Leto II sul Sentiero Dorato pluri-millenario, è di fermare i Fremen, lo strumento umano utile alla conquista del potere ma ormai impazzito. Padre e figlio devono eradicare la religione di Muad’Dib. L’unico modo è far tornare uomo fallace e debole, agli occhi degli adoratori Fremen, colui che fu solamente il ragazzo Paul Atreides.

Manca tutto: è un peccato enorme.

 

Villeneuve, 2018

 

Dopo le solite decine di tentativi di reinterpretazione visiva durati anni e anni, nel segno dell’ossessione della sabbia, nel novembre 2016 la Legendary Entertainment ottiene tutti i diritti di “Dune” al cinema o in televisione. Un mese dopo il regista franco-canadese Denis Villeneuve (un’altra Bilancia nata il 3 ottobre 1967) inizia le trattative per realizzare il suo sogno. Nel febbraio 2017 viene tutto confermato. Quell’aprile il veterano Eric Roth inizia a scrivere la prima bozza di sceneggiatura; per dire, si tratta dell’autore di cosette come “Forrest Gump” di Robert Zemeckis (1994), “Insider” (1999) e “Alì” (2001) di Michael Mann, “Munich” di Steven Spielberg (2005)…

Denis Villeneuve ha invece fatto pochi film, ma la resa è eccelsa: “Enemy” e “Prisoners” del 2013, “Sicario” del 2015 e “Arrival” del 2016 sono eccezionali; “Blade Runner 2049” del 2017 è deludente nello script e un po’ pretenzioso, ma visivamente magnifico e con un ottimo cast.

Basterebbe che oggi gli uomini di Villeneuve, per la preproduzione del nuovo kolossal fantascientifico, andassero nel vero deserto del Sahara, beccassero un po’ di tribù indigene vere e trasportassero di peso il libro al cinema, senza tanto tirarsela e leggendo con attenzione e rispetto quelle incredibili pagine “del Shaitan” (del diavolo). Affrontando a testa alta e schiena dritta la Questione Araba e le epocali migrazioni dal terzo mondo. Ciò non è mai successo e sarebbe una bella novità. In questo senso, quello che Villeneuve sta per intraprendere non è né deve essere un “remake”. Se il canadese di “Blade Runner 2049” facesse un remake del film di Lynch sarebbe una sciocchezza - lo era già, in parte, la miniserie. Se invece facesse “make” del libro, avrebbe senso. Villeneuve parte comunque in vantaggio: adora il libro fin da ragazzo; il suo fantastico “Arrival”, opera metafisica sulla preveggenza del cronoflusso che permette ai mutati i viaggi spaziali, è un “Dune” mascherato. In “Sicario”, in quel film di visitatori alieni di due anni fa e in Blade Runner II la rappresentazione spettacolare degli spazi panoramici è frutto di un’evidente capacità pittorica, adatta a un pianeta di infiniti granelli e a una “nazione” di infiniti pianeti. Villeneuve ammette di aver letto “Dune” da teenager e di averlo sognato: oggi, a cinquant’anni, proclama di voler recuperare quei sogni e trasformarli nel cinema più maturo possibile. Dice: “Negli ultimi cinque anni ho fatto cinque film istintivamente, a getto continuo, senza riflettere su me stesso né guardarmi indietro. Adesso, per Dune, voglio fermarmi per qualche tempo, studiare ciò che ho fatto per ricavarne qualcosa di evoluto”.

Villeneuve ha annunciato almeno due anni di lavoro per trasformare il primo, amatissimo libro in due o più film. Ne sta riscrivendo lo script… Speriamo che il film nuovo sia vero “Dune”. Per l’apparato visivo ha l’imbarazzo della scelta – basta scorrere velocemente Google alla voce “Dune Fan Art”! Ciò su cui si giocherà tutto sarà la scrittura; e qui si dovrà, finalmente, dimostrare di aver letto un testo impegnativo e di aver provato a capirlo, discuterlo, interpretarlo. Senza parlare poi dei cinque sequel Fanta-filosofici di Frank Herbert, sempre più stranianti; o dei tanti libri lineari di Brian H. e K.J. Anderson, a formare un Universo pensato in grandissimo e narrato al minimo. Il materiale per la programmata saga multimediale, con film alternati a serie tv coordinate, è ottimo e abbondante. Materia prima di qualità pronta a essere elaborata da mani sapienti.

Insomma, i due segni di Aria Bilancia (Herbert e Villeneuve) e Acquario (Jodorowsky e Lynch), molto affini tra loro, sono legati ad Arrakis. E il caso, nell’arte, non esiste.

Questo romanzo possiede una sorprendente vitalità. È trattato nelle università ed è regolarmente riletto, come “Il Signore degli Anelli” di J.R.R Tolkien datato 1954-1955. Ma se Tolkien era un ottimista che credeva nel lieto fine eucatastrofico; Herbert denota al contrario un pessimismo cosmico di tipo kubrickiano. Paul Atreides, il protagonista, è l’eroe adolescente per antonomasia, il ragazzo che sviluppa grandi poteri, guida degli adulti in battaglia e diviene il mistico dominatore di un universo. Allo stesso tempo Paul non è felice: nel primo romanzo le sue vittorie sono problematiche. Vittima delle macchinazioni della sua amata famiglia, egli lotta disperatamente per evitare la sanguinosa Jihad (crociata religiosa) che ha previsto, ma ogni scelta e impresa lo spinge sempre più in quell’orribile direzione. Herbert, inoltre, interrompe bruscamente la storia nel momento del trionfo, impedendo al lettore di gioire delle vittorie del suo torturato eroe. Alla fine del secondo volume Paul ha perso tutto e si sacrifica al deserto. Tutte tracce che rivelano il potente substrato di un romanzo “Science-fantasy” (mia forzatura, questo Genere è forse più adatto della classica Fantascienza) sul potere e sul misticismo: il protagonista è un giovane nobile e coraggioso, ma le buone intenzioni e gli eroismi causano guerre e sofferenze.

In “Dune” è l’Uomo il centro di tutto, con le sue sterminate potenzialità fisiche e mentali ma anche con i suoi limiti nei confronti del Destino. Allo stesso tempo “il messaggio della saga è: fate attenzione agli eroi”, come scrisse l’autore. E questa morale ha sempre un grande valore, nel nostro tempo di preoccupazioni per il futuro e timore per le stesse persone che dovrebbero aiutarci nel renderlo luminoso.

È il fascino del libro, il motivo per il quale lo rileggiamo una volta cresciuti. Da giovani ci conquistano gli aspetti eroici dell’avventura: vorremmo tutti essere Paul. Da grandi iniziamo a comprendere la tragedia insita nelle trappole disperate, negli intrighi paranoici e nella morte straziante che circondano la Casa Atreides; e compatiamo Paul soffrendo per lui, forse come soffriamo compatendo noi stessi.

Letto e riletto il libro, capiamo che gli infiniti particolari disseminati da Herbert trovano il loro senso ultimo nella natura profondamente ambivalente del mondo: Paura e Coraggio. Vigliaccheria ed Eroismo. Egoismo e Altruismo.

I complessi piani del tormentato Thufir Hawat dimostrano sia l’egotico bisogno di proteggere la propria casa dal tradimento; sia un’eroica e leale integrità. Le Bene Gesserit sono sia donne meraviglia al servizio della collettività; sia streghe che osano controllare gli incroci genetici di genitori e figli. Le armi usate negli scontri sono sia vecchie spade e pugnali affilati; sia l’incubo ricorrente delle bombe atomiche. Il Verme delle Sabbie è sia il terribile Shai-Hulud, la bestiale divinità fremen; sia il benigno Creatore, colui che produce la Spezia. Il Melange è sia la Spezia geriatrica che allunga la vita e potenzia i processi cerebrali; sia la droga dagli Occhi di Ibad che crea dipendenza senza uscita e può uccidere. Dune è sia gli onirici tramonti fiammanti contro le poetiche due lune; sia le spaventose tempeste di Coriolis, che scarnificano i corpi. Il deserto è sia uno spietato omicida; sia forgiatore dei formidabili Fremen... Che a loro volta sono sia efferati e inesorabili omicidi; sia dignitosi ed esotici intellettuali. Anche Paul Muad’Dib è allo stesso tempo Atreides e Harkonnen.

Ogni cosa contiene il suo opposto; trionfo e tragedia si alternano senza fine.

 

Post Scriptum…

Mio cast duniano ragionato e corretto per Villeneuve. Priorità agli attori che hanno già lavorato con lui.

Atreides… gente severa e marziale. Paul Atreides/Muad’Dib (15/19 anni, piccolo di statura, moro): David “Bruce Wayne” Mazouz oppure Dylan “Clark Kent” Sprayberry. Duca Leto Atreides (greco, alto, duro, carismatico): Liam “Qui-Gon Jinn” Neeson. Lady Jessica Atreides (rosso-bionda, matura, fantastica): Robin “House of Cards” Wright. Gurney Halleck (brutto, atletico, sfregiato): Michael “Zod” Shannon. Thufir Hawat (vecchio, temuto, carismatico, aggiungo io pure senza una gamba): Harrison “Han Solo” Ford nel ruolo della sua vecchiaia. Duncan Idaho (capelli lunghi ricci neri, seduttore): Idris “Pacific Rim” Elba. Dottor Wellington Yueh (orientale, vecchio): Chow “La tigre e il dragone” Yun-Fat. Wanna Yueh (triste, bella, vecchia): Isabella “Velluto blu” Rossellini. Alia Atreides (bambina, ambigua): una giovanissima sui 3/5 anni che sappia recitare in maniera inquietante? Duca Paulus Atreides (vecchio, durissimo, pazzo): Jeremy “Alfred” Irons.

Harkonnen… gente ricca e complottante. Barone Vladimir Harkonnen (vecchio, grasso, inquietante): Vincent “Kingpin” D’Onofrio. Feyd-Rautha Rabban Harkonnen (16/20 anni, bellissimo, moro): Harry “Dunkirk” Styles/Dylan “Clark Kent” Sprayberry. “Beast” Glossu Rabban Harkonnen (giovane, grasso, spietato): John “Samwell” Bradley West. Piter De Vries (viscido, deviato): Ryan “Blade Runner II” Gosling. Iakin Nefud (duro, silenzioso): Forest “Saw Gerrera” Whitaker.

Fremen… gente seria e inflessibile. Stilgar (arabo, silenzioso, durissimo, carismatico): Viggo “Aragorn” Mortensen in versione desertica. Liet-Kynes (alto, durissimo, leader): Hugo “V” Weaving. Chani (pseudo-araba, giovane, bella): Leem “Rock the Kasbah” Lubany, 25enne palestinese, figlia di Liet/Weaving. Shadout Mapes (araba, dura, saggia): Salma “Frida Kahlo” Hayek. Reverenda Madre Ramallo (araba, vecchia): Viola “Amanda Waller” Davis. Jamis (arabo, orgoglioso): Amr “Geostorm” Waked. Harah (araba, dura): Zoe “Gamora” Saldana. Otheym il Fedaykin (arabo, duro): Naveen “Sense8” Andrews. Korba il Fedaykin (arabo, duro): Rami “Freddie Mercury” Malek.

Imperium… gente barocca e arrogante. Imperatore Padiscià Shaddam IV Corrino (70enne ma ne dimostra meno di 40, belloccio, rosso): Michael “Magneto” Fassbender, che può interpretare qualsiasi ruolo. Principessa Irulan (giovane, bionda, bellissima): Emily “Mary Poppins” Blunt. Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam (vecchia, strega): Helen “Morgana” Mirren. Conte Hasimir Fenring (freddo, basso di statura, grigio): Josh “Sicario” Brolin. Lady Margot Fenring (francese, bellissima): Mélanie “Shosanna” Laurent. Imperatore Padiscià Elrood IX Corrino (vecchio, carismatico): Victor “Argo” Garber. Imperatrice Anirul (triste, stupenda): Amy “Lois Lane” Adams. Pardot Kynes (sognatore, carismatico): Hugh “Wolverine” Jackman, australiano come il “figlio” Hugo Weaving. Capitano Aramsham dei Sardaukar (durissimo, nazistoide): Nikolaj “Jaime” Coster-Waldau. Banchiere della Gilda (viscido, politico): Benicio “DJ” Del Toro. Esmar Tuek, contrabbandiere (selvaggio, carismatico): Jeremy “Hawkeye” Renner. Staban Tuek, contrabbandiere (selvaggio, avventuroso): Jake “Zodiac” Gyllenhaal.

 

Il mio libro sulla saga di Dune

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