Tarzan
Il pianeta degli uomini scimmia
analisi di Filippo "Jedifil" Rossi, scritta nell'estate 2016
Tarzan, the Movie?
Il celeberrimo personaggio romanzesco di Edgar Rice Burroughs ha superato da un pezzo il secolo: Tarzan appare a puntate sulla rivista All-Story Magazine, USA, nell’ottobre del 1912. Ma, tranne poche eccezioni e tentativi, da molto tempo ha praticamente abbandonato il grande schermo o la cultura Pop, dopo averli dominati. Esploriamo uno degli stupri letterari più grandi mai commessi dal cinema… ossia la serie dimenticata di Hollywood. Che, forse, oggi ritorna più autentica e legittima?
EROE DI VECCHI FILM
Il giovane Kellan Lutz (alias Emmett Cullen in “Twilight”) è stato il primo Tarzan cinematografico dopo 15 anni di assenza dal set... pur nascosto dal motion capture digitale. Si trattava del film in animazione 3D direttamente dagli studi tedeschi della Constantin. Una produzione datata 2012 che ha celebrato il centenario del più famoso personaggio di E.R. Burroughs.
Due anni fa ci ha poi pensato lo svedesone Alexander Skarsgård che, nel film kolossal di David Yates "The Legend of Tarzan" (1° luglio 2016), ha tentato di rilanciare in grande stile il franchise dopo che solo la Disney era riuscita a proporne il ricordo animato. Per quest’ultimo Tarzan live action vi rimando a fine articolo.
Ci sono James Bond, Batman, Sherlock Holmes per ogni generazione cinematografica; per decadi Tarzan ha fatto parte di questo pantheon eroico: dalla sua creazione ha ispirato almeno 89 film... ma solo una manciata di essi è stata prodotta negli ultimi 40 anni. Un tempo è stato un fenomeno, adesso l’Uomo Scimmia monosillabico in un’africa Fantastica e razzista, che urla il suo yodel mentre si lancia di liana in liana nel glorioso bianco e nero, sembra anacronistico. O forse il vostro Tarzan è quello della trentina di romanzi; o quello dei molti fumetti; o quello dei film a colori anni ’60; o quello, semplice ma emozionante, della Disney (1999), con i suoi messaggi infantili di tolleranza e le canzoni di Phil Collins. La Faber ha commissionato ad Andy Briggs una nuova serie tarzanide per ragazzi; lo scrittore afferma: “Il 99% dei bambini sa chi è Tarzan, anche se non hanno mai visto il cartone Disney. Sanno che vive nella giungla ed è stato cresciuto dalle scimmie, tutti conoscono il suo urlo. Nessuno di loro sa come...”. Attraverso una specie di osmosi culturale Tarzan è ancora con noi; ma dove è stato? E può tornare ad avere successo?
ORIGINI SELVAGGE
“Tarzan of the Apes” è stato pubblicato dall’americano Burroughs nell’ottobre 1912, in versione seriale sulla rivista pulp All-Story Magazine. Come per John Carter di Marte, dello stesso autore, l’attrattiva per i lettori dell’epoca stava nell’ambientazione esotica quasi impossibile. Le "giungle" africane potevano anche essere più vicine dei deserti rossi marziani ma rimanevano ben al di là delle possibilità del pubblico, abbastanza inesplorate da poter credibilmente nascondere infinite città perdute e specie dimenticate. La stessa ignoranza dell’autore gli fece popolare la sua fitta foresta da animali che preferiscono spazi aperti e da inesistenti “scimmie giganti”. Successivo di soli 13 anni al “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, il libro è ovviamente diverso ma tratta degli stessi orrore/fascinazione per la vita selvaggia.
Burroughs iniziò a 37 anni la sua carriera pulp, dopo l’esercito e decine di imprese tra le più svariate: quando inventò John Carter e Tarzan vendeva temperamatite - e passava il tempo leggendo riviste tascabili. Concluse che se c’erano tizi pagati per scrivere immondizia di quel genere, allora poteva scriverne anche lui! Da perfetto dilettante era sicuro di poter raccontare storie altrettanto, o più, intriganti. In seguito divenne un uomo d’affari molto astuto: fu uno dei primi scrittori a proteggere legalmente il suo nome e le sue opere, creando la ER Burroughs Incorporated nel 1923.
Il cinema muto tentò quasi subito di filmare Tarzan: dal primo storico Elmo Lincoln di fine anni ’10 a James Pierce che, prima di indossare il pellicciotto, si sposò la figlia dello stesso Burroughs, Joan. Ma l’autore rimase deluso dalla mancanza di fedeltà e cercò dei cine-studi che gli garantissero il controllo creativo... Impresa che abbandonò presto. La MGM entrò in campo e lo scrittore le vendette subito il nobile personaggio, disinteressandosi del suo destino cinematografico. Hollywood doveva solo rimanere fedele al concept, libera di inventarsi nuove storie. L’archetipo ignorante “Io Tarzan tu Jane” nasce qui, anche se la battutaccia non è in nessun script.
DA LORD A... SCIMMIONE
Il Tarzan originale è il Lord britannico vittoriano/edoardiano John Clayton III, ottavo Conte di Greystoke, il perduto orfano londinese nato nella giungla africana il 22 novembre 1888. Nel primo romanzo, ancora adolescente, impara da solo a leggere l’inglese; l’ufficiale della Marina belga d’Arnot, dopo averlo trovato, gli insegna il francese... L’epilogo lo vede, nobile e ricco ventenne, guidare un’automobile dalle parti di Baltimora alla ricerca della sua Jane Porter, alla quale rinuncia da gentiluomo perché già promessa sposa. All’inizio del secondo romanzo (“The Return of Tarzan”, 1913) è a Parigi, conosciuto come l’elegante e duro Monsieur Jean C. Tarzan; poi lavora come raffinato e feroce agente segreto per i francesi nell’Algeria pre-Grande guerra... è l’inizio della sua vasta saga Fantasy, sospesa e imprigionata tra l’Europa civile e ingessata e l’infinita, vitale culla africana.
Nei film MGM, invece, Tarzan è il campione di nuoto Johnny Weissmuller, senza alcuna origine né altro nome: si tratta della misteriosa “grande scimmia bianca” incontrata dall’esploratore James Parker (C. Aubrey Smith) e dall’allegra figlia Jane (Maureen O’Sullivan) sul sentiero per il mitico Cimitero degli Elefanti – in “Tarzan the Ape Man” del 1932. Weissmuller era un famoso olimpionico dal corpo scultoreo che costrinse il personaggio, nelle successive decadi, a essere interpretato da atleti più che da attori. Anche il fisico della O’Sullivan aveva molti fans: nel sequel “Tarzan and his Mate” del ’34 il suo bikini e la nuotata come mamma l’aveva fatta (ma in acqua sguazzava una controfigura...) fecero impazzire pubblico e censura. Weissmuller lottò per dodici film con animali pericolosi, selvaggi cannibali e bianchi bastardi; il suo urlo, creato da un ingegnere del suono (l’attore avrebbe poi imparato a imitarlo abbastanza bene), rimane l’icona tarzanide. Questi amatissimi film in B/N, conditi di inaccettabili assurdità come la star Cita e la capanna tra le liane, sono l’origine di capolavori moderni come “I predatori dell’Arca perduta” - in “Tarzan Triumphs” (’43) i nemici sono, ovviamente, i nazisti.
Anni ’30-’40: esplode il cine-mito nella competizione di vari progetti. Il produttore Sol Lesser si impossessò per vie traverse dei diritti e mise in scena il serial ufficioso “Tarzan the Fearless” (’33), con un altro nuotatore a impersonare l’Uomo Scimmia (Buster Crabbe); dopo un terribile tentativo con il decatleta Glenn Morris, rilevò nel 1943 dalla fallita MGM la serie ufficiale dell’imbattibile Weissmuller e la portò alla rivale RKO.
Nel frattempo lo stesso Edgar Rice Burroughs, stanco di vedere il suo aristocratico eroe dalla doppia natura ridotto a un troglodita balbuziente, rimuginava una sua discesa in campo cinematografico...
TARZAN IN FILM, ASCESA E CADUTA
Nel 1935 l’autore letterario stesso entrava nel mondo del cinema. Produsse le “New Adventures of Tarzan”, protagonista il lanciatore di pesi olimpico Herman Brix (destinato a una buona carriera hollywoodiana). Tentativo onesto ma modesto: i pochi soldi e le varie malattie tropicali lo affossarono, ingiustamente. Il buon Burroughs, esasperato dai successi dell’inesatto Tarzan di Hollywood, si sfogò nel suo contemporaneo romanzo “Tarzan and the Lion Man”, magnifico meta-pulp nel quale una troupe filmica si scontra con uno scienziato pazzo in Africa e l’Uomo Scimmia in persona fa un provino per il ruolo di se stesso... ma viene scartato perché “non adatto”! Da allora ERB si tenne lontano dal cinema; continuò a scrivere popolarissimi libri tarzaniani (saranno 24) fino alla sua morte, nel 1950.
Nel frattempo l’ormai leggendario Johnny Weissmuller appendeva il perizoma al chiodo dopo il suo dodicesimo cine-exploit tra le liane: “Tarzan and the Mermaids” (1948; senza le sirene del titolo ma con una bella piovra gigante). Il franchise sembrava stanco eppure riesplose grazie al citato produttore Sol Lesser della RKO, protagonisti prima il bellimbusto Lex Barker fino al ’53 poi Gordon Scott fino al ’60. Il buon “periodo Scott” (sei film) non raggiunse le vette commerciali dell’era Weissmuller ma si trattò di uno scossone nell’immaginario filmico.
L’ultimo della serie Lesser fu “Tarzan’s Fight for Life” del ’58, il terzo con Scott e solo il secondo a colori; subentrò il grande produttore Sy Weintraub che, pur confermando Scott, cambiò tutto: basta con i set finti e OK alle location africane; il suo Tarzan divenne un solitario, con poche apparizioni di Jane (come del resto nei romanzi), e finalmente si acculturò - tra il film citato e l’ottimo “Tarzan’s Greatest Adventure” del ’59 l’Uomo Scimmia impara un perfetto inglese e smette di riferirsi a sé stesso in terza persona. Greatest Adventure e il successivo “Tarzan the Magnificent” (1960) sono da molti considerati tra i film migliori sul personaggio: si tratta praticamente di Western nella giungla (Tarzan da solo contro una gang di cattivi, che devono essere sconfitti uno a uno per restaurare l’ordine), con un giustiziere serio e duro e atmosfere violente, adulte. In Greatest Adventure appare l’allora sconosciuto Sean Connery come il cattivo O’Bannon: l’attore scozzese in seguito fu sul punto di sostituire Scott; ma aveva fatto provini per un piccolo Spy-thriller siglato 007... Tarzan regalò Connery a James Bond eppure, negli anni ’60, i due procedettero appaiati. Dopo il maturo Jock Mahoney (due film), il fisicato ma brutto Mike Henry di “Tarzan and the Valley of Gold” (’66) fu un Lord della Giungla bondiano: arrivava in elicottero, imbrillantinato e in completo tropicale; c’era il cattivo megalomane con strani sicari e la base nelle Ande, nebbiosa e invisibile ai satelliti. Tarzan mutò in un cacciatore di super-cattivi globetrotter!
“Tarzan and the Jungle Boy” (1968, con Henry) dopo 36 anni segnò la fine dei kolossal. Weintraub passò alla Tv con la popolare serie NBC protagonista Ron Ely - un Tarzan colto, che era tornato nella giungla stanco della civiltà: durò dal ’66 al ’68 per 56 puntate e quattro film rimontati dai molti doppi episodi. Fu chiusa perché troppo costosa, Weintraub si dedicò ad altro e la potente Warner Bros., neopadrona del concept filmico, avviò un’epoca di incertezze produttive su un personaggio ancora incompreso...
TARZAN, LA RINASCITA
Fin dall’inizio degli anni ’70 il grande Robert Towne (scrittore di “Chinatown”, 1974) lavorava alla sceneggiatura che sarebbe divenuta nell’84 “Greystoke”. Voleva adattare fedelmente il romanzo originale del 1912 firmato E.R. Burroughs, pur togliendo il Fantasy e correggendolo: leopardi al posto dei leoni e mandrilli per gorilla. Doveva dirigerlo lui stesso ma il lavoro rimase incompleto fino all’entrata in gioco dell’emergente regista inglese Hugh Hudson. La prima versione finiva nel villaggio africano (d’Arnot vi porta Tarzan sulla via del ritorno per l’Inghilterra); Hudson strutturò la parte civile e tagliò quella selvaggia. Lo script, poi nominato agli Oscar ’85, fu rinnegato da Towne, che ne creditò il suo cane!
Prima dell’uscita, Greystoke fu ostacolato anche dal film del 1981 con Bo Derek, “Tarzan the Ape Man”. La rivale MGM manteneva i diritti sulla vecchia storyline del cimitero degli elefanti e poteva farne il remake; la nuova sexy-star Derek scelse di rifare la Jane di Maureen O’Sullivan dall’era Weissmuller. Pur nella disperazione della Burroughs Inc., poteva funzionare: quella Jane era significativa e, già negli anni ’30, provocante. La prima metà del film è divertente - anche grazie al folle padre di Jane, interpretato dal grande Richard Harris; poi la fascinazione di Miles O’Keeffe (un Uomo Scimmia ebete quanto figo) per le tette di Bo è davvero imbarazzante.
Toccava a Hudson, reduce dal successo dell’opera prima “Momenti di gloria”, salvare Tarzan. Greystoke era nelle corde del regista: un realistico dramma storico su un aristocratico della giungla che deve tornare alla civiltà, scoprendo che essa stessa è un altro tipo di “giungla”. Fu scelto il parigino Christopher Lambert (il cui accento francese è corretto per il Tarzan letterario) proprio perché recalcitrante; affascinò il regista il suo sguardo cupo e nervoso, che si scoprì essere miope. Il kolossal “Greystoke: The Legend of Tarzan, Lord of the Apes” esce nel 1984 e l’atmosfera edoardiana di amore, perdita e buone maniere a tavola confuse i fans del vecchio cine-Tarzan; ma la dura serietà e un super-cast all-british funzionano.
Ci volle comunque un’altra decade per un pseudo-sequel più Fantasy; ma “Tarzan and the Lost City” (1998, con l’inutile Casper van Dien) era senza ambizione e rimase senza pubblico... La penultima tarzanata live action sul grande schermo, nonostante il successo del cartoon Disney del 1999.
Oggi… Gli Anni Zero prima trasformano Tarzan in un brutto e inutile personaggio filmico contemporaneo e giovanilistico (in Germania, per il Motion capture 3D della Costantin). Poi, accolgono il regista di Harry Potter David Yates per il ritorno ufficiale Warner. Questi finalmente propone l’originale ambientazione letteraria d’un Fantastico passaggio di secoli '800-'900, pur con le inevitabili sensibilità moderne a rischio di anacronismo... Dopo un secolo di cine-tentativi, quest’opzione inedita, anche se imperfetta, è l’ultima. Eccone la recensione.
“THE LEGEND OF TARZAN” (DI DAVID YATES, 2016)
Come una Ferrari che accende il motore dopo anni di garage, anche il cinema ritrae finalmente uno dei più grandi personaggi mai creati - in un film semplice, avventuroso, drammatico e coinvolgente. Anche se ancora non perfettamente fedele all’eccellente matrice originale, per i soliti motivi.
Se si parla di Tarzan, chiunque a qualsiasi età, di qualsiasi ceto, sesso e origine sa di chi si tratti. Una figura che ha conquistato e spadroneggiato l’immaginario umano per un secolo, forse la più riconoscibile in assoluto al di là di ogni possibile spiegazione.
“Il bambino bianco perso in Africa e allevato dalle scimmie, l’uomo in perizoma che vola tra le liane della giungla e lancia l’urlo.”
Se fate un esperimento e chiedete chi sia Tarzan, questa riga di definizione è la risposta immediata e praticamente istintiva da parte di tutti. Cinema, fumetti, televisione hanno diffuso il concept fin dalla nascita di ciascuna forma espressiva, perché ancestrale. E la gente l’ha accettato senza riserve perché toccata nel profondo. Ma la stragrande maggioranza del pubblico che l’ha fatto proprio non sa che Tarzan è un personaggio letterario per il quale la riga di definizione sopra citata è assimilabile alla seguente affermazione: “una rombante Ferrari rossa è un carro meccanico su quattro ruote di gomma”.
Creato oltre un secolo fa come romanzo pulp dall’improvvisato scrittore americano Edgar Rice Burroughs, poi sviluppato in dozzine di libri, questa figura è stata subito un’opera di genio dal successo artistico, economico e culturale travolgente. Comprensibile anche della miriade di soprannomi con i quali è conosciuto: l’Uomo Scimmia, il Re della Giungla, il Signore delle Scimmie, la Scimmia Bianca, il Lord delle Liane, Lord Greystoke, ecc. La sua è fondamentalmente una doppia vita (cosa che è rispecchiata pure nella finzione, come vedremo): letteraria e cinetelevisiva. Sulle pagine scritte e disegnate è l’eroe di una vera e propria saga Fantasy così lucida, complessa e ricca che i paragoni possibili sono pochissimi; sul piccolo e grande schermo è stato portato in trionfo con una quantità spropositata di opere minori e massacrato con fastidiosa superficialità. Un’abbondante superficialità rivelatasi nel lungo periodo letale: via via è passato di moda per ragioni soprattutto sociali - l’imbarazzo mediatico dell’ingannevole “bianco bruto monosillabico dominatore dei negri africani” è tanto evidente quanto comprensibile. Fino alla versione infantile e allegra del film animato della Disney, destinato a mettere la parola fine al personaggio sul grande schermo.
Ma perché farne quindi un altro film?
CLAYTON, OPAR E MANGANI
Tre parole, tre nomi presenti (pur se solo accennati) in questo film di David Yates che danno il senso all’ennesima trasposizione cinematografica di un personaggio che reputo essere il più affascinante mai creato dalla fiction mondiale.
Sono tre nomi che all’appassionato tarzanide dicono tutto; e, incredibile!, al grande pubblico dello schermo non dicono niente - o quasi. Questo perché il misterioso “figlio” di Burroughs è il personaggio più usato e meno compreso dalla storia del cinema: le tre parole sono elementi che chiariscono, dopo un secolo, il mistero e offrono l’unica (e preziosa) spiegazione possibile per avere un Tarzan al cinema nel 2016.
Clayton: è il vero nome di Tarzan, ultimo erede di una potente casata nobiliare della Vecchia Inghilterra. Per la precisione stiamo parlando di John Clayton III, quinto Conte (in varie versioni Visconte) di Greystoke e membro della Camera dei Lord del Parlamento del Regno Unito. Ricco, elegante, coltissimo nobile e politico inglese, esploratore poliglotta, avventuriero e imprenditore, intellettuale autodidatta, eroe militare della Prima e della Seconda guerra mondiale; immortale. Dopo l’infanzia selvaggia nella giungla, l’Uomo Scimmia si libera del perizoma di pelle d’antilope e indossa con la stessa disinvoltura cilindro e frac. Torna nella patria Inghilterra e si riappropria pienamente del legittimo posto privilegiato nella società occidentale. La sua vita da allora si divide in maniera realizzata tra l’aristocratica Londra, il mondo e l’amata Africa: tra un se stesso istintivamente civilizzato e un se stesso consapevolmente selvaggio. È vero, anche in questo film poteva essercene di più. Ma Clayton = Avventura.
Opar: la città dei diamanti e delle gemme, degli uomini-bestia e della regina stupenda, dimenticato ultimo avamposto di Atlantide, simbolo e origine di una sfrenata e affascinante saga Fantasy. Prima delle numerose città perdute create dalla fantasia di Burroughs, tra enclavi isolate di antichi Romani e quasi-lillipuziani, tra dinosauri al centro della Terra e immensi tesori in antiche volte. Lord Greystoke/Tarzan esplora, da solo e umilmente, un’Africa immaginaria e immaginata, in cui animali e uomini di ogni aspetto creano un universo parallelo sospeso, espanso nel tempo e nello spazio; che da leggenda si fa mito. Per arrivare Mito dei miti: la Fonte dell’Eterna Giovinezza, cui l’eroe e la sua bella si abbeverano raggiungendo anche materialmente quell’immortalità già loro a livello culturale. È vero, anche in questo film poteva essercene molto di più. Ma Opar = Fantasy.
Mangani: letteralmente “Grande Gente”, il termine indica il popolo e la lingua delle pseudo-scimmie fittizie che hanno allevato il piccolo Lord. Non si tratta di scimpanzé né di gorilla né di mandrilli - i Mangani chiamano se stessi così. Una specie immaginaria di feroci e intelligenti “uomini scimmia primitivi” (Australopitechi, secondo il guru della Fantascienza Philip José Farmer), bipedi, che mangiano carne e parlano tra loro. Burroughs ne crea la dettagliata lingua, nella quale il nome Tarzan significa “Pelle Bianca”. Questa abilità di parola permette al bambino, poi ragazzo Clayton di sviluppare in modo eccezionale la mente (insieme al fisico, reso super dalla giungla): impara da solo a leggere l’inglese sui libri classici abbandonati nella capanna nella foresta dai genitori uccisi; in seguito sviluppa una visione idealizzata e severa dell’umanità e della sua civiltà, e una capacità di apprendimento superiore. È vero, anche in questo film poteva essercene tanto ma tanto di più. Ma Mangani = Fantascienza.
Questi tre magnifici elementi basilari sono stati in passato gestiti raramente dal cinema e mai combinati insieme. In questo film succede per la prima volta – anche se in maniera troppo distillata.
La prima trovata del film è quindi una certa, vaga fedeltà ai fantasmagorici testi scritti, effettivamente mai avvenuta sullo schermo. La seconda trovata è la clamorosa, questa sì riuscita fusione della fiction di Burroughs con la Storia reale dell’Occidente e dell’Africa.
FANTA-STORIA
La chiave della rappresentazione? L’unione sperimentale nello script dei Fatti Storici con il parto speculativo della fantasia; in un film dalla forma lineare, all’antica.
I libri originali di Tarzan erano infatti contemporanei alla vita del personaggio, ritratto come realmente esistente in un’Africa Nera e in un’Europa immaginarie (nel 1912 del romanzo capostipite “Tarzan of the Apes” il protagonista aveva tra i 20 e i 25 anni - il solito Farmer, successivo fanta-biografo di Lord Greystoke, lo fa nascere per la precisione pochi minuti dopo la mezzanotte del 22 novembre del 1888 sulle coste del Gabon, l’Africa Equatoriale Francese). Gli sceneggiatori di Legend of Tarzan spostano invece le vicende del personaggio indietro nel tempo di circa una generazione, dall’Inghilterra Edoardiana a quella Vittoriana, dal Gabon al Congo: ciò per fare un ragionato salto concettuale post-moderno rispetto alla materia artigianale di Burroughs e poter sfruttare narrativamente il terrificante olocausto storico del paese sotto la tirannia personale, nella seconda metà dell’Ottocento, di Re Leopoldo II del Belgio. Uno dei più grandi massacri dell’umanità, simbolo nefasto dell’epoca coloniale, crimine storico dell’Europa schiavista, motivo del dissennato sfruttamento economico dell’Africa – soprattutto, eventi alla base della complicatissima situazione sociale odierna dei due continenti, tra migrazioni e razzismo. L’attualità del film si fa in questo modo necessaria, pregnante, addirittura drammatica.
Vengono sfruttate location legate a un passato ormai remoto e vagamente ricordato, ricostruite giustamente in CGI; vengono gestite situazioni politiche, sociali ed economiche da tempo cronicizzate; vengono impiegati personaggi realmente esistiti, come lo spietato capitano belga Léon Rom (il villain del tarantiniano numero 1 Christophe Waltz) e il giornalista e reduce afroamericano George Washington Williams (la spalla dell’eroe interpretata dal tarantiniano numero 2 Samuel L. Jackson); vengono addirittura adattate atmosfere letterarie potentissime e perfette, come quella seminale del “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad, 1899 – epocale romanzo denuncia del grande letterato americano sull’enorme tragedia umanitaria dello Stato Libero del Congo.
Il tutto è cucinato con equilibrio in un film semplice. Essenziale. Un coinvolgente road movie esotico di inseguimento attraverso lunghe camminate, treni nella foresta, battelli sul fiume e liane pluviali. Una pellicola da “mal d’Africa” con leoni e ippopotami, elefanti e struzzi digitalmente visionari come la giungla e la savana in cui si rintanano. Un buddy-buddy tra bianco e nero alla Arma Letale con le tribù indigene e gli schiavisti bianchi invece dei poliziotti e i terroristi. In cui Alexander Skarsgård, il biondo svedese alto due metri e dal fisico perfetto, interpreta un “possibile” Lord Greystoke: super-uomo d’antan scatenato e puro, profondamente innamorato della sua bellissima, indomita moglie statunitense Jane Porter (Margot Robbie, l’attrice più sexy del pianeta).
Purtroppo, alla stanga nordica manca la lunga, distintiva chioma corvina; dopo la giusta braga da esploratore d’epoca, non si vede mai la fantastica mutandona di pelle di antilope; latita la necessaria e giovanile auto-formazione intelligente - rimane infatti quel fastidioso dejà-vu del cartoon Disney, con Jane che ha fatto in flashback la “scuola per selvaggi” al muto e scimmiesco giovane Apollo castano chiaro della giungla (cosa mai letta nei libri). Tant’è. Vista la situazione, si renda grazie a Madre Africa.
Un appassionato come me chiede molto di più ma accetta quel che di interessante passa il convento. Il film ha avuto un buon successo ma, ovviamente, non ottimo, vista la solita chiave tradizionalista tra semplificazioni del passato e citazioni di quegli errori. I sequel, oggi sempre più incerti, dovranno, dovrebbero essere molto più Fantasy e ancora più… Tarzan. Altra via per il successo non esiste.
Parte dell’articolo è apparsa su Living Force Magazine #36 e #37, Yavin 4, autunno 2012