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Dune (Parte 1)

Disegno di Filippo Rossi Jedifil: Paul Muad'Dib Atreides di Dune fantascienza

Un ragazzo-star può essere il Profeta? E sarà il Messia?

analisi del film di Filippo "Jedifil" Rossi, scritta il 13 luglio 2023

Il mistero della vita non è un problema da risolvere, ma una realtà da sperimentare.

- Denis Villeneuve lo fa dire a Jamis in Dune (Parte 1), tratto da Frank Herbert ne I figli di Dune, che a sua volta trae da Søren Kierkegaard

 

Settembre 2021. Il film Dune (il basilare sottotitolo, purtroppo assente in Italia e in altri luoghi, è “Parte 1”) del vero e antico appassionato duniano Denis Villeneuve è flemmatico, imponente, cupo. È frutto di un sogno, spesso un incubo, a occhi aperti; ed è raccontato come in un sogno, o meglio in un incubo incessante. È, di conseguenza, apparentemente monotono e con qualche problema di ritmo, ma sconquassato da improvvise violenze fisiche e concettuali.

L’opera del regista canadese, per quanto immersa in una ricercata casualità onirica, ci schiaccia con un opprimente tono serio che, se stritola i rarissimi sprazzi di ironia nelle prime sequenze, spreme di continuo lampi poetici. Il dramma è sempre più cattivo. Un crescendo cosparso di sospensioni eteree che non ne alleviano la pesantezza. Ne risulta un film arduo. È secco e spietato nell’affiancare all’esagerata immensità visiva una vicenda “impressionista”, che raffigura con poche pennellate tante situazioni fuori dalla comprensione comune, tanti personaggi sfuggenti, tante immagini destabilizzanti.

Sembra tutto lento, forse addirittura tirato via… eppure si viene travolti da un quadro multimediale fatto di movimenti (assemblati dal montatore Joe Walker, premiato con l’Oscar), luci (fotografate dal direttore Greig Fraser, premiato con l’Oscar), suoni (ideati dai tecnici Mac Ruth, Mark Mangini, Theo Green, Doug Hemphill e Ron Bartlett, premiati con l’Oscar) e musiche (inventate dal compositore Hans Zimmer, premiato con l’Oscar) che, alla fine, quasi nemmeno si riesce a far propri fino in fondo. Tanto per sottolineare l’altissimo livello dell’opera d’arte e il conseguente trionfo critico, pure scenografie (Patrice Vermette e Zsuzsanna Sipos) ed effetti speciali (Paul Lambert, Tristan Myles, Brian Connor e Gerd Nefzer) ricevono l’ambita statuetta, rendendo Dune il film il più oscarizzato della stagione.

Shakespeare spaziale

È il racconto di una tragedia familiare nella cornice cosmica di un intrigo tra nobili casate imperiali, che impone un’atmosfera plumbea e sofferente adatta più al Macbeth di William Shakespeare che alle filosofie scavezzacollo nelle Star Wars di George Lucas. Da questo punto di vista, chi si aspetta un nuovo Signore degli Anelli (fiaba che all’oscurità incombente affianca l’allegria degli Hobbit e il romanticismo degli Elfi) o un nuovo Avatar (telenovela di botti bellici ed esotismi fosforescenti) rischia una violenta delusione. Ma se si cerca il modo per entrare a testa alta in una nuova epopea immaginaria, qui si ottiene tutto quello che si può sperare di trovare in un kolossal moderno della fantasia: tecnicismi visivi e sonori al massimo, arte musicale inaudita, grafica poderosa e d’impatto, ritmo elegante tra lunghe pause e frenetiche accelerazioni, trovate ambientali coinvolgenti, interpretazioni impeccabili (per quanto alcune istantanee) da volti riconoscibilissimi, regia spettacolare ma allo stesso tempo fruibile; anche, una sincerità commovente.

Sull’aspetto di storia/scrittura serve indirizzare tutti al legame con l’immenso romanzo ispiratore di Frank Herbert, origine della più importante (eufemismo) saga della fantascienza letteraria… e qui il discorso si fa molto complesso. Semplicemente perché complesso, estremamente complesso è il testo Dune datato 1965 dello scrittore Herbert - al quale vanno aggiunti i cinque coerenti seguiti. Ricordiamo che la lettura della leggendaria esalogia di libri duniani fatica da decenni a svolgere una matassa narrativa tra le più intricate mai immaginate, un inappuntabile ma tortuoso labirinto di specchi infarcito con più strati di psicologia analitica, filosofia sociologica, spiritualità metafisica. Lo staff di sceneggiatori capeggiato da Villeneuve vede in questa impresa l’ostacolo più grave, sia per il successo commerciale del franchise filmico, sia per il senso stesso dell’espressione artistica nell’adattamento da letteratura a cinema.

 

La storia nel film

 

Gli sceneggiatori (Villeneuve stesso con Jon Spaihts ed Eric Roth) hanno scelto di tagliare molto dal romanzo originale, ma anche dalle progressive bozze di sceneggiatura scritte durante il processo di pre-produzione. Per arrivare al succo della prima metà del primo libro, Dune del 1965, hanno osato succhiar via un’infinità di “fronzoli”, ossia tutti i plurimillenari retroscena, le continue deviazioni, le dettagliate spiegazioni che fanno innamorare chiunque possegga il nerbo di leggere davvero l’opera. Si tratta di materia preziosa, indispensabile per intuire la soluzione della sciarada romanzesca, ma che nel cinema di Villeneuve è o eliminata in tronco, o lasciata al non verbale. Sia chiaro: tra l’abbondanza di pregi sensoriali, che si fa anche contundente, salta via tanto del romanzo, rischiando più volte il difetto narrativo. Ma di fatto è impossibile mettere in un film di un paio d’ore tutto di Dune, le assenze sono inevitabili; ciò che conta è come il grande schermo di Villeneuve sia pieno a scoppiare di fedelissimi dettagli d’atmosfera. Da decifrare, per orientarsi nel viaggio desertico ai Sietch.

In effetti si tratta del terzo approccio, a mio parere il migliore, rispetto ai precedenti. Intendo il primo tentativo cinematografico di David Lynch, che nel 1984 per tentare di tradurre il volume in un paio d’ore comprensibili ha sostituito intere sezioni letterarie con scorciatoie personali (il più classico esempio è l’invenzione filmica dell’arma sonora detta Modulo Estraniante, che sostituisce l’intero retroscena fisico-mentale e tattico-strategico rappresentato dal basilare Bene Gesserit). Intendo pure il secondo tentativo televisivo di John Harrison, che nelle puntate della sua miniserie del 2000 cerca di mostrare tutto di tutto ma alla fine resta sulla superficie spesso banale (riporto l’esempio dei Fremen, scolasticamente squadernati ma alla fine razziati di senso, funzione, fascino).

C’è pure da aggiungere che gran parte dei dubbi narrativi, forti o meno, non assenti nel gran film di Villeneuve sono destinati a essere spazzati via dall’imminente sequel - questo Dune villeneuviano del 2021 adatta solo la parte iniziale del romanzo-capolavoro, interrompendo il crescendo sul più bello. Naturale come regista, cast, crew da tempo annuncino che la seconda parte sarà ben più vasta, più risolutiva, più densa! Perché tale è il romanzo stesso; ma anche perché, sia lode!, è finita quella pandemia che ha funestato a vari livelli produzione e distribuzione di film 1.

Molto prima di vedere il film avevo letto la prima, più estesa bozza della sceneggiatura: quella portata sul set; in seguito è stata sia integrata da alcune scene in più, sia soprattutto tagliata di numerose sequenze per stare nelle due ore e mezzo del prodotto finale. Commento le sezioni della storia anche in relazione a quanto riportato là.

 

Sezione 1 - Inizio su Caladan

 

Il necessario spiegone iniziale sulla situazione degli equilibri duniani, camuffato da Librofilm tipico nella sub-realtà futuribile del romanzo, è per fortuna al minimo. Purtroppo espone come fatto noto che la Spezia Melange sia basilare per i piloti della Gilda Spaziale (senza per fortuna dire come e perché). Si tratta invece del segreto vitale per la fragile stabilità dell’Imperium, in mano solamente ai sottovalutati Fremen e quindi sfruttato, in Parte 2, da Paul Muad’Dib nella salita al trono. Del resto la Spezia, McGuffin della vicenda, è un osso duro da gestire. Il bravo Villeneuve lavora sulle omissioni misteriose e sul visivo, mostrando “il sacro allucinogeno” come suggestiva polvere rossastra sospesa sulle sabbie di Arrakis e prelevata a pizzichi dai nativi in ampolle orientaleggianti.

Manca una qualsiasi citazione dell’antico evento Jihad Butleriano, che implica una vaghezza di ambientazione storica e sociale. Non si capisce come la società conseguente, rappresentata nel film, non possieda computer, automi robotici, reti digitali, tecnologia cibernetica, ecc. Come nel film 1984 di David Lynch e negli altri adattamenti, si inizia con il solito “anno 10.191” che, non indicato come Post-Gilda, sembra un Anno Domini “dopo Cristo”. Cosa che non è, Dune avviene molto ma molto più avanti nella nostra cronologia terrestre: anche solo questo clamoroso scarto cronologico avrebbe potuto zittire qualsiasi obiezione. Era uguale in bozza 1, stessa sensazione.

La sospensione dell’effetto Holtzman non è spiegata. Ciò fa confusione tra gli stupendi scudi (il genio di Villeneuve li rende comprensibili all'istante con il gioco di colori, inesistente nel libro, tra blu per respinta e rosso per penetrazione); la propulsione delle astronavi; l’onnipresente, essenziale per l'Imperium di Herbert, “levitazione” antigravitazionale di oggetti, mezzi e guerrieri. Se se ne lascia intatto il fascino, si toglie purtroppo spessore all’ambientazione sociale e scientifica. Non c’era nemmeno in bozza 1.

Gli shot d’atmosfera nelle ambientazioni norvegesi per Caladan sono davvero riusciti e compensano il compassato ritmo espositivo. Segnalo l’incisivo Benjamin Clementine come Araldo del Cambiamento, che Villeneuve si inventa di sana pianta e che rappresenta un ottimo dessert per la necessariamente variopinta corte imperiale galattica.

Le Bene Gesserit sono molto scarne e sintetiche, si vedono solo all’inizio pur restando affascinanti nei loro conclamati complotti genetici, politici e religiosi. L’assunzione di Spezia, i Veleni Illuminanti e il mito del Kwisatz Haderach vengono trattati molto lateralmente e solo all’inizio; i loro doni, supplizi e capacità sono lasciati nel vago, a costo di suggerire superficialità. Essendo così anche in bozza 1, è la precisa scelta degli sceneggiatori. Anche nel romanzo la Sorellanza è l’enigma tra i più affascinanti; qui, la poca roba che rimane ne esalta la potenza di tipo fantascientifico e non magico. Riporto tre esempi… La Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam (una spaventosa Charlotte Rampling) ricorda a Lady Jessica, e rivela al pubblico, i loro piani millenari che riducono il protagonista eroico a una pedina, per quanto possa essere promettente, per di più minacciato da delle “riserve di prospetto” – che Parte 2 rivelerà. Il secondo esempio è il preziosissimo, inedito fuori dai libri, accenno di Lady Jessica alla Missionaria Protectiva presso i Fremen, che (rispettando il dettato di Herbert) abbatte senza ambiguità l’intera impalcatura messianica del Lisan al Gaib atreide e rivela l'ipocrisia di una qualsiasi religione. Terza e ultima, la Voce dal devastante impatto sonoro come un pugno in faccia: è provata dal giovane protagonista in una bella scena famigliare, per poi essere scatenata prima da Mohiam e poi da Jessica in brevi scene “fisiche” - Villeneuve sceglie giustamente di mostrarla dal punto di vista di chi la subisce, il quale ha la sensazione di voci irreali ma di realissimi tramortimenti, perdendo il ricordo dello spazio temporale in cui è stato obbligato a fare ciò che ha appena fatto.

 

Variazioni per Giedi Primo

 

“Tranquillo, non morirò”: sono tra le prime parole che Jason Momoa, popolare e perfetto interprete del “duellante” Duncan Idaho, rivolge un Paul preoccupato da incubi sanguinosi. Ci viene in mente ciò che l’aspetta come Ghola del Bene Tleilax… e, subito dopo, sul buio pianeta dei facoltosi Harkonnen appare uno sconcertante mostro troppo simile a certe, costose deviazioni genetiche Tleilaxu. Un paio di volte con il Duca Leto, ma soprattutto nella scena finale tra Rabban e Vladimir, viene infatti sottolineata l’importanza fondamentale del denaro nel sistema di potere imperiale. Risulta chiarissimo che gli Harkonnen vincono perché sono molto più ricchi degli Atreides. Era ora!

Come già in bozza 1, gli sceneggiatori fanno fare ben poco a diversi, fantastici personaggi letterari, dando la sensazione fastidiosa del cammeo superficiale… Li salvano gli interpreti e l’occasione del ritorno nel sequel. Se Josh Brolin propone un vagamente paterno Gurney Halleck (che non ha nemmeno l’ombra del Baliset, anche se almeno declama un paio di poesie dalla Bibbia Cattolica Orangista), sono soprattutto gli Harkonnen ad apparire sacrificati.

Il Glossu “Beast” Rabban di Dave Bautista inizia benissimo urlando come un ossesso, poi decapita qualche Atreides e, alla fine, si limita ad annuire al Barone Vladimir Harkonnen, che nelle capaci mani svedesi di Stellan Skarsgård è a metà tra il colonnello Kurtz di Marlon Brando (in Apocalypse Now 1979) e un Nosferatu sovrappeso. Molto bella la sua scena inventata con Mohiam nel cono sonoro Holtzman, utile a suggerire il peso del Bene Gesserit addirittura sugli intrighi degli Harkonnen. In seguito, il Barone sfugge al gas “dentale” del Duca come un ragno nero attaccato al soffitto e chiude immergendosi in una vasca di liquame, allo stesso modo in cui un Grande Verme s'inabissa nella sabbia di Arrakis. Non c’è altro, nemmeno quel Feyd-Rautha che nel libro appare già nel secondo capitolo. Ma la regola è che deve farla da padrone il linguaggio grafico e sintetico di Villeneuve.

 

Sezione 2 - Sistemazione ad Arrakis

 

L’arrivo degli Atreides è giocato sul monumentale. Anche qui, per trasmettere tutto il carisma del Duca Leto Atreides basta l’inquadratura silenziosa di Oscar Isaac che marcia di profilo passando in rassegna le truppe. Leonino. Fanno il resto gli insistenti cori “Atreides! Atreides!” dei soldati, che sulla carta potrebbero apparire ridicoli ma sullo schermo villeneuviano convincono subito il pubblico di quanto sia commovente la triste grandezza della Casata del falco (rosso) su campo neroverde.

Appena traslocati sul mondo detto “Dune”, si vede bene una sola delle due lune: la Mano di Dio, che disturba le comunicazioni e si fa simbolo della tragedia Atreides. Il disegno creato dalle ombre dei crateri viene con coerenza notato dal Duca Rosso e spiegato da Halleck. Mentre il disegno del topo sulla seconda luna di Arrakis, più piccola, è lì anche se relegato in un angolo. Come lo sono le tre suggestive apparizioni, riservate al protagonista, del relativo animale: il topo saltellante delle sabbie, per i Fremen il muad’dib, “l’insegnante dei bambini” che si crea la propria acqua come fosse una tuta distillante vivente. Per Paul l’animaletto diviene il segno immediato della bellezza del deserto. Come Parte 1 introduce la prima luna, dannazione degli Atreides, Parte 2 introdurrà la seconda luna e il nome del destino profetico: Muad’Dib. Sono queste infinite letture laterali che rendono il Dune di Villeneuve un capolavoro affascinante per esperti e neofiti. Sono tanti dettagli artistici attivi nel definire i personaggi. Altri che mi piace citare sono i bonsai giapponesi e le cornamuse scozzesi per la benigna multietnicità degli amati Atreides; oppure il dipinto old style del Vecchio Duca nelle vesti di toreador e la statuetta della corrida per l'erede, il ragazzo perduto.

Tagliate via diverse bellissime scene letterarie, tipo la serra di Arrakeen (non c’era nemmeno in bozza 1), il ricevimento/cena degli Atreides (era variata in bozza 1), Duncan Idaho ubriaco (non c’era nemmeno in bozza 1), la cattura di Thufir Hawat (era variata in bozza 1). D’altro canto, la diminuzione di qualche dettaglio mistico tipo la Bibbia Cattolica Orangista (si intuisce in mano a Gurney, che ne declama dei versetti, e ai pellegrini Fremen ad Arrakeen) non alleggerisce per nulla l’atmosfera spirituale, né l’inquietudine religiosa. Vi contribuisce la Shadout Mapes di Golda Rosheuvel, prima Fremen che vediamo in azione. Il suo siparietto come governante alle prese con la “madre Bene Gesserit” è scarnificato (si lascia nel non detto il doppio senso in Chakobsa del coltello Cryss come “creatore di morte” legato al Creatore Shai-Hulud) ma suggestivo, soprattutto nel lancinante urlo fanatico per la profezia che si avvera.

Paul Atreides non è indicato come Mentat “inconsapevole” (non c’era nemmeno in bozza 1); ciò porta alla diminuzione del Thufir Hawat di Stephen McKinley Henderson, che è proposto senza l’aura di pericolosa super-spia assassina che vanta nel libro. Certo, la sua figura non è banale nell’economia del film, dato che resta l’artefice del piano atreide di alleanza con i Fremen; ma il fascino letterario purtroppo è perduto. Personalmente avrei scelto un attore ben più “fisico” e inquietante per il vecchio Maestro degli Assassini, ma qui conta come ciascuno di noi interpreta le pagine di Herbert. Al molto benevolo Thufir di Villeneuve viene anche tolto il sospetto “professionale” su Jessica come traditrice (non c’era nemmeno in bozza 1). In effetti viene eliminata tutta l’ansia degli Atreides per il presunto traditore, senza per fortuna intaccare l’atmosfera di dannazione che permea la loro tragica permanenza sul mondo delle dune. Comunque il Dottor Wellington Yueh di Chang Chen mantiene quel ruolo, che si rivela d’improvviso, senza alcuna anticipazione.

Altro potenziamento visivo: le stupende palme del palazzo di Arrakeen, citate nel libro, diventano nel film un notevole contrappunto. Sono adorate da un privilegiato giardiniere indigeno come “antico sogno” del popolo; vengono bruciate dagli sprezzanti Harkonnen; quindi, come vedremo, saranno richiamate dal protagonista nel sedurre il Liet dei Fremen.

 

Intermezzo su Salusa Secundus

I Sardaukar sono gestiti molto bene, un pregio forse decisivo del film. Già annunciati dalla Reverenda Madre al cospetto del Barone, ce li mostra in carne e ossa il Mentat/ambasciatore Hakonnen Piter De Vries (David Dastmalchian, meno crudele del libro ma altrettanto sgradevole). Li incontra nella livida bufera di Salusa Secundus, mentre si pitturano la faccia e l’uniforme avorio con il sangue di nemici crocifissi, parlando un linguaggio incomprensibile con sottotitoli – lo stesso che introduce il film a schermo nero: “I sogni sono messaggi dal profondo”. Qui, De Vries li provoca citando i leggendari Halleck e Idaho e solo di fronte ai due nomi il comandante Bashar abbandona l’arrogante superiorità e sputa veleno. Tutto materiale inventato dal regista. I Sardaukar devono essere individuati subito dal pubblico come diversi da qualunque altra truppa combattente e Villeneuve li mostra in bianco come gli Stormtrooper di Star Wars ma senza traccia di armatura, bensì con una tuta che li rende quasi “supereroici”; il casco d’ordinanza lascia intravedere occhi spiritati, la cintura Holtzman li assimila a parà antigravità senza l’ingombro di paracadute, le movenze sono da tigri assetate di sangue – ben altro livello rispetto agli spazzini con visiera fosforescente di Lynch o ai tronfi pennacchi di Harrison, ma anche ai sadomaso con pungiglioni di Alejandro Jodorowsky! L’esercito imperiale ha una funzione fondamentale nella vicenda e il film la rispetta alla lettera: diverse decine di Sardaukar riescono a intercettare la fuga di Paul, Jessica e Duncan insieme ai Fremen; giustamente, un pugno di guerrieri del deserto (!) e soprattutto l’inarrestabile Idaho (!) li riducono a tre sopravvissuti, che però vincono affettando alle spalle l’unico testimone anti-Imperatore.

 

Sezione 3 - Battaglia di Arrakeen

 

Tra le straordinarie bombe che planano lentamente dentro gli scudi delle astronavi Atreides, resta tagliato un buon personaggio inedito come l’ufficiale Atreides Lanville (Roger Yuan): nella bozza 1 è il sabotatore inviato dal Duca Leto a far fuori i depositi Harkonnen di Spezia su Giedi Primo, per poi essere catturato e finire preda di Feyd-Rautha nell’arena in Parte 2 - ne resta solo il richiamo iniziale da parte di Duncan Idaho, incomprensibile, e un paio di apparizioni cammeo. Tra i tagli, anche una figura ben più incisiva come Hawat a un certo punto sparisce nel nulla.

La fondamentale Lady Jessica della fantastica Rebecca Ferguson è resa in modo notevole come autocontrollo e spietatezza ma resta troppo vaga e lontana, e sembra così poco approfondita. Inoltre non si rivela che è la figlia del Barone Harkonnen (così anche in bozza 1).

Le ultime parole del Duca Leto, a differenza del romanzo, definiscono il personaggio: la battuta di sfida declamata alla letteraria cena di gala, “Qui sono, qui resto!”, è spostata alla fine, prima di gasare tutti gli avversari. La sputa fuori nudo e inerme, guardando la testa di toro che ha ammazzato il padre. Un momento deciso, disperato. Indimenticabile.

I Fremen funzionano ma restano accennati e non troppo sviluppati – tranne la stupenda scena nella quale sputano nella caffettiera per fare il caffè. Non si sa praticamente nulla del loro progetto di terraformazione di Arrakis (mentre c’erano più accenni in bozza 1). Tra loro, con loro, Duncan Idaho acquista finalmente valore cinematografico e si rende coprotagonista empatico e vitalistico. Rispetto ai pochi ma notevoli paragrafi romanzeschi qui ha più spazio, ben maggiore rispetto a tutti gli altri comprimari. Ad esempio, è lui a presentare con bellissime parole i Fremen e il deserto a Paul, verso il quale esprime affetto anche fisico; o quando affronta i Sardaukar sfidandoli per nome e sacrificandosi in modo utile, dato che ferma la lingua laser che sta tagliando la porta e concede decisivi secondi alla fuga degli eroi. Purtroppo nessun accenno di cotta per Jessica… peccato!

A proposito dei laser, inviterei a osservare la certosina attenzione sfoggiata da Villeneuve nel loro impiego, memore della pericolosità in un'epoca di scudi Holtzman. Anche qui si lavora sul clima del racconto, mostrando pochissimo quest'arma silenziosamente realistica (altro che folgorazioni anni '50 zum! zum!) e lasciando al pubblico la domanda sul perché di questo sotto uso nell'Universo rappresentato.

Liet-Kynes, grazie alla straordinaria Sharon Duncan-Brewster, è la rivelazione del film. Un pizzico di ecologia, suo l’unico accenno alla terraformazione di Arrakis, e molta politica imperiale. Il mistero di questo ruolo sfuggente, schiacciato tra Imperium e Dune, è mantenuto fino in fondo, e la leadership dei Fremen è rivelata un poco alla volta, solo grazie a particolari d’ambiente - ad esempio, l’inconsueta deferenza mostratale dai duri del deserto. Ho amato il primo duetto con Idaho, a strage avvenuta, e quello finale con Paul, anche se quest’ultimo era ben più lungo in bozza 1. Quel “sogno antico” suggerito al puro Paul dal giardiniere delle palme da dattero è lo stesso che, qui, l’indurito Paul usa per sedurre misticamente la leader Fremen Liet. È la scena basilare, tra le bellissime nella Stazione Botanica Sperimentale: “Ho visto i tuoi sogni” – i sogni nel Dune di Villeneuve, quindi, sono sia sinceri e reali (come quei “messaggi dal profondo” che la Spezia amplifica) sia costruiti per il controllo (da chi sa manovrare la Via Bene Gesserit). L’uscita di scena di Kynes è reinventata e, per quanto profondamente diversa dalla magia letteraria, perfetta… Infilzata alla schiena dai Sardaukar, con la sottile trovata dello splatter non di sangue ma di acqua che esce dalla tuta distillante. I militi imperiali l’accusano del tradimento del loro sovrano deificato, prima che la donna possa prendere all’amo il suo dio, l’unico al quale mostra fede: Shai-Hulud. Sulla sabbia, agonizzante, Liet batte ritmicamente il pugno e si fa divorare con loro dal Creatore, il Grande Verme delle Sabbie.

Due aforismi dei tanti di Frank Herbert, solo due ma naturali sfoggi di genio che decidono il film, si sentono durante la fuga di Paul e Jessica nella tempesta. Li cito in apertura e chiusura di questo scritto; li rifila in questo preciso momento (in una visione presciente da parte del futuro Kwisatz Haderach), prima di sguainare due Ami da Creatore, il primo personaggio umano che Denis Villeneuve ha mostrato due ore prima sul grande schermo: occhi azzurri nell’azzurro, turbante in testa e filtro al naso, pelle e barba scuri, sguardo da macellaio.

 

Sezione 4 - Deserto di Dune

 

Centro assoluto dell’opera è Paul Atreides. Anche più che nel libro, ogni evento è visto dal suo punto di vista, lo spettatore è costretto a immedesimarsi in lui. Il personaggio risulta potenziato e, in tutta sincerità, mi stupisce. Il carisma che non ne nasconde le fragilità è il tratto tipico del raffinato interprete Timothée Chalamet ed è perfetto per la controparte narrativa, com'è perfetta pure la sua età: durante le riprese quei venticinque anni di giovane veterano del cinema, tra giochi effettistici e sembianze naturali, paiono spesso i sofferti, maturi 15/16 del libro. Con la potentissima Reverenda Madre Mohiam, il ragazzo reagisce da uomo; la affronta alla pari, anche durante il decisivo Gom Jabbar! Sfoggia, dai primi minuti fino alla fine, molte visioni in sogno opposte tra loro, a mostrare cinematograficamente i tanti futuri possibili su cui Frank Herbert insiste in ogni riga. L’apice è la fondamentale sequenza dell’overdose di Spezia nella tenda distillante, al fianco di Jessica in crisi e in contemporanea con la distante morte del Duca Leto. È accorciata di molto rispetto al relativo capitolo (capolavoro letterario che da ragazzo, alla prima lettura del libro, mi fulminò), ma è dominata dall’evidente dolore psicofisico del bravissimo attore – degnamente supportato dalla materna spalla Ferguson. Si tratta dell’apice emotivo e poetico del film, poi firmato da un paio di chicche senza prezzo: prima, la sorprendente battuta inedita del figlio sul far bere alla madre l’amara acqua raccolta nottetempo dalle tasche della tenda, fatta del sudore della fatica di entrambi ma soprattutto delle loro lacrime luttuose; in secondo luogo, dando prova di saper usare le invenzioni tecniche dei Fremen, Paul esce all’aperto e rivede (e ci fa rivedere) il saltellante muad’dib sulla duna, all’alba. Solo qualcuna delle tante sottolineature suggestive ma esplicative, mai forzate e piuttosto fluide e dense di interpretazioni, che spingono a innalzare salmi in lode alla “frankherbertosità” di Denis Villeneuve. Il protagonista, giovane sensibile predestinato a essere schiacciato da poteri incommensurabili, è la colonna del film e Chalamet lo regge con classe sulle scarne spalle. Diventa il migliore in campo e la benedizione, sia artistica che commerciale, per il cineasta. Mai scelta di casting fu più azzeccata.

I leggendari Vermi delle Sabbie si vedono pochino ma così mantengono la notevole influenza misterica sulla prima parte della vicenda. Fantastica l’invenzione visiva della bocca, che parte dai fanoni delle balene (che filtrano il plancton nell’acqua, o qui sabbia) e arriva a sembrare un unico, inquietante occhio sospeso sulle dune – citazione simbolica di innumerevoli aspetti concettuali della saga duniana. Eccezionale il lavoro effettistico condotto sui movimenti della sabbia al loro passaggio, che si comporta come ondate d’acqua sulla superficie del mare, pure schiantandosi su rocce affioranti come scogli. Corretto l’insistere sul pericolo delle vibrazioni ritmiche sul deserto, da evitare da parte di un viaggiatore tramite il “cammino senza ritmo” per simulare i suoni naturali – Herbert tiene moltissimo a questo particolare e Villeneuve non delude, risultando il primo regista che lo mostra al grande pubblico. Resta la voglia di vedere ancora più Shai-Hulud in azione!

E siamo, con più momento dinamico nella narrazione, ai fondamentali Fremen, ossia lo sviluppo del concept da non sbagliare se ci si approccia a Dune. Mai la terrificante grandezza della gente dei Sietch è stata resa meglio. Stilgar e Chani nelle versioni Javier Bardem e Zendaya sono due killer e rappresentano l’intera popolazione, primi tra i pari. Sono certo gli attori oggi migliori possibili per personaggi così importanti, il cui fascino multi generazionale aiuta a introdurci all’enigma Fremen. Lui appare a metà sputando con fierezza (scena inaudita al cinema) e alla fine mostrando stanca sicurezza, disprezzo per qualsiasi outworlder (in italiano il più prosaico “straniero”) e sbrigativa decisione. Lei è magnetica e credibile nell’attualissima apertura guerrigliera da terzo mondo incazzato. I due chiudono il film trattando malissimo Paul – Chani preparandogli lapide e tomba prima dell’impossibile duello rituale, Stilgar strappandogli di mano una pistola Maula ancora da meritare… Per poi accettarlo nella tribù con l’adeguato stupore, di fronte a quelle stupefacenti capacità da omicida.

Un personaggio minore come il Fremen Jamis sa innestare e innescare nel finale una carica esplosiva. Lo sconosciuto attore nigeriano Babs Olusanmokun mostra tutta la ferocia e tutta la nobiltà del popolo del deserto durante il fatidico duello. La voce sofferta, lo sguardo triste, le movenze animalesche ma aggraziate. Magnifico come, in precedenza, Paul addirittura lo identifichi, tra le tante visioni oniriche della prescienza, come quell’amico che gli “insegna la via del deserto”! Le sinistre voci di streghe Bene Gesserit (tra le quali sentiamo la mitica Marianne Faithfull) insistono sul necessario passaggio del protagonista dall’inconsapevolezza di erede nobiliare al totale controllo di profeta mentale… la traduzione cinematografica che Villeneuve opera sull’uccisione di Jamis tocca la vetta espressiva.

Il maturato Paul si impone e accetta il destino desertico. La Parte 1 di Dune termina subito dopo il duello con Jamis. La fila di Fremen cammina verso Sietch Tabr trascinando il cadavere bendato del caduto, pronto per subire la tradizionale distillazione - annoto come Jamis, per Villeneuve, debba aprire il film come guerrigliero contro i vecchi oppressori Harkonnen e lo debba chiudere come martire per colpa dei nuovi oppressori Atreides... Paul indica a Jessica un lontano Sandrider (Cavaliere delle Sabbie) in groppa a un Verme, in una bellissima e giusta visione tipo miraggio - che personalmente attendevo tanto! Le ultime parole sono di Chani e definiscono quel momento solo l’inizio di tutto. Per quanto poetico e non sbagliato, il punto a capo lascia perplessi. Forse, come succede nella bozza 1 della sceneggiatura, era meglio portare più avanti il film fino all’Orgia Tau dei Fremen: l’Acqua della Vita per Lady Jessica chiude il suo percorso di personaggio, mentre un ormai uomo Paul, drogato di Spezia, fa l’amore con Chani. Quel finale l’avrei trovato più struggente. D’altro canto è una sezione articolata, meritevole di più respiro: molto probabilmente aprirà in gloria Parte 2.

 

L’iceberg di sabbia

 

Il film segue i sacri dettami ideati dal romanziere Ernest Hemingway per i tanti capolavori letterari che ha sfornato. La sua teoria dell’iceberg afferma che ciò che si fruisce nella narrazione principale della vicenda di finzione è solo una piccola parte (visibile), prescelta dal narratore, di una massa di informazioni enorme come la vita stessa, data per scontata (sommersa) poiché letteralmente “vissuta”. Qui l’idea letteraria hemingwayana è pratica cinematografica come mai prima. Tutto quello che manca in queste due ore e mezza è in realtà giusto resti sotto traccia, al limite comunicato visivamente senza giri di parole, buttato lì come dettaglio d’atmosfera o scenografico. Non enumerato come dal macellaio, grammo per grammo, ma suggerito come dallo psicologo. Anche se si corre l’effettivo rischio della fastidiosa frammentarietà o il pericolo inevitabile della rabbiosa incomprensione. Tanto, se uno vuole approfondire il modo c’è e le pagine pure. Eccome!

Ad esempio, inutile ripetere, come succede nelle dunate cinematiche passate, che Arrakis è un pianeta terribile. Basta far vedere come gli attori nei nobili panni forestieri di Paul e Jessica arranchino sulle sabbie diurne e notturne. La mia inquadratura preferita è la prima volta che i due si vedono in tuta distillante, mentre affrontano la distesa di dune al tramonto, scesi dalla roccia sulla quale si sono rivestiti dopo lo schianto dell’Ornitottero fremen. Con loro, che respirano a fatica dietro le maschere e sotto i kefiah, si resta incantati dalla bellezza e spaventati dalla ferocia di Dune; sentimenti espressi con un occhio registico profondamente innamorato. Anche in seguito, già nella tribù di Stilgar, la recitazione di Chalamet si fa stanca, provata, rallentata per risparmiare energie: cast e crew sono davvero nel Wadi Rum della Giordania. Non si tratta di scenografie posticce. Tante parole descrittive sono bypassate dall’esperienza reale, che traspare dai fotogrammi.

Dune: Part One è il più classico film-iceberg, fatto di ghiaccio non più candido ma sporco: tetro e doloroso. L’invisibile che sta sotto il livello dell’acqua è molto di più e rende così pericolosa e affascinante l’immensa montagna nera che si intuisce nella notte. Tra fragori infernali la forma galleggiante appare ancora più temibile e disturbante.

Lo scontro del nostro Titanic mentale contro l’iceberg diventa inevitabile.

Per evitarlo, il film va affrontato, va accettato, va capito e va assimilato. Ma, a ben pensarci, è la stessa cosa che capita ai lettori con la prima metà del primo libro di Herbert. Ed è, ebbene sì, la stessa cosa che capita ai protagonisti della storia imperiale: i privilegiati e ignoranti membri della nobile Casata degli Atreides, come anche tutti i riccastri, intriganti e ancora più ignoranti, dell’Imperium, quando per loro sventura mettono piede per la prima volta sul pianeta Arrakis… e, tapini, hanno a che fare con Fremen che non guardano in faccia nessuno, non risparmiano nessuno, non rispettano nessuno - dato che tutto già sanno da un pezzo! Pardot l’insegna a Liet, Liet l’insegna a noi.

 

In cammino con i Fremen

 

Serve, per chi già conosce e ama il romanzo, dimenticarlo e, molto semplicemente, ricominciare da zero, immedesimandosi nel giovane protagonista Paul Atreides – quindicenne che, pur dotato, colto e privilegiato, scopre in un colpo solo un intero Universo. Del resto noi si entra in sala ed è come nascere vergini e puri per ritrovarsi investiti dalla Storia del Mondo sintetizzata per immagini. Allora, fortunati coloro che, coraggiosi e dalla mente aperta, con questo film arrivano su Dune per la prima volta! I neofiti sono benedetti.

Se, come il bruno rampollo degli Atreides, non si ha paura di mettere a dura prova cuore e anima, muscoli e nervi, si viene catapultati in un inesorabile crescendo di furia e sorprese. Un folle viaggio il cui senso è il piacere (o dolore) del viaggio, non certo il raggiungimento di una meta ancora al di là di qualsiasi portata, nostra come di Paul. Ciò che Villeneuve ci propone è solo il pazzo inizio di un percorso multiforme e sovrapposto, tra segnali di ardua decifrazione, lungo i primi passi su di un sentiero dorato a volte respingente, sempre impegnativo; le cui promesse di meraviglie, per una volta, non sono solo chiacchiere ipocrite da politici ma minacce concrete di assassini nati. Zaino Fremkit in spalla e si tiri un bel respiro nella maschera della tuta distillante.

Un film così difficile e impegnativo non solo è dominato, ma addirittura aiutato dal grandissimo Timothée Chalamet. Egli, sulla falsariga di Paul Muad’Dib nei confronti del suo Imperium cosmico, è l’unico che può salvarlo, estendendo la vita del progetto-saga grazie ai necessari incassi. In tal senso resta obbligatorio incontrare il gusto di un pubblico così superficiale come l’odierno, affascinato da continue sciocchezze filmiche senza vita… e qui la giovane star trascina in sala le giovani folle, anche perché per nostra fortuna a bellezza aggiunge una bravura mostruosa.

L’opera cinematografica nella quale Chalamet giganteggia risponde da sola a quasi tutte le domande fondamentali che la storia complessa di Herbert pone allo spettatore. Non lo fa con sovra-informazioni fastidiose ma con classe subliminale e marginale, azionando a sorpresa il cervello di chi si ritrova in sala per assistere a ciò che suppone essere la solita banalità di moderna fantascienza eroica. La costruzione della tensione è insostenibile, condotta con classe e dovuta a qualcosa di inspiegabilmente grande in arrivo per schiacciare l’Uomo, immagine da incubo resa concreta in più passaggi simbolici, pratici, metafisici, esotici, ambientali, action, bestiali, ecc.

 

Da rampollo a fuggiasco, da Duca a Kwisatz Haderach

 

Denis Villeneuve cala i due assi che tiene nella manica: partire dall’amore per il libro di Dune; continuare con i tagli dal libro di Dune. Lo fa in tre step decisivi: voler fare di Dune un film comprensibile per tutti; fare di Dune un film stimolante per i curiosi; fare di Dune un film fedele al libro.

Sempre più richiami interni, ripetizioni ritmiche, accenni istantanei, ricchezze narrative, colpi di classe cinematografica da notare, interpretare e ricordare. Il fatto basilare è che si tratta di un Film vero, ambizioso e risolto, ricco e sensato. Il che è un miracolo: parliamo di Dune romanzo, Hal Yawm!

Gli Harkonnen sembrano essere, tra le ombre onnipresenti, vampiri sadici che fanno paura? Beh, fanno ancora più paura di loro i fanatici Sardaukar che, quando giungono sul campo di battaglia, fanno indietreggiare tutti gli altri; e poi gli spietati killer Fremen, in agguato felino sulle rocce, paiono ulteriormente terrificanti. Tra i linguaggi arcani ci accompagnano, nostro unico aiuto, le visioni dei sogni e degli incubi, che il magnifico protagonista tenta di riordinare in un caos sensoriale che prefigura la caduta nella follia. Paul Atreides stesso, nella sequenza centrale e più bella, per un momento cede, crolla e urla contro la madre dominante e il destino gramo del padre assente, si rannicchia scosso dai tremori lancinanti della droga - esattamente come cede, crolla, urla e si rannicchia un drogato nel momento dell’overdose… Da quel rischio continuo, in bilico tra comprensione e follia, che è la Spezia non può non nascere il futuro Paul Muad’Dib. Da questo rischio continuo, sospeso tra lentezza e spettacolo, deve rinascere al cinema la necessaria saga della Spezia, che sappiamo già Denis Villeneuve intende portare al terzo film Messia di Dune, alias il secondo volume della serie di Frank Herbert. Se l’eroe nasce nel primo episodio Parte 1, trionferà nel secondo Parte 2 ma precipiterà e si schianterà nel terzo, Messia. Perché un profeta, se davvero e solo “uomo”, non può reggere le visioni del tempo immortale.

È inevitabile: il grande pubblico premierà tutta questa oscura, angosciante e insinuante enormità. Lo fa da oltre cinquant’anni, rendendo l’enigmatica immensità desertica del libro la più letta e amata della storia della fantascienza.

 

Un processo che non si può comprendere arrestandolo. Dobbiamo seguire il flusso del processo; unirci a esso, fluire con esso!

- Denis Villeneuve lo fa dire a Jamis in Dune (Parte 1), tratto da Frank Herbert in Dune: “Prima Legge del Mentat”

 

Il mio libro sulla saga di Dune

Su Yavin 4 il trailer "esteso" di Dune (Parte 2), 2023

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